Dal prof Salvo Distefano, già docente di filosofia nei licei e ora presidente dell’Associazione Etnea Studi Storico Filosofici, che opera in collaborazione con l’Istituto Italiano per gli Studi Filosofici di Napoli, riceviamo un intervento sul 25 Aprile che quest’anno si celebra, purtroppo, in versione quarantena: infatti, dopo 75 anni, sarà una Festa della Liberazione senza cortei, comizi, bandiere; e “Bella ciao” si canterà soltanto dai balconi.
Un 25 Aprile, dunque, in versione lockdown che l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani d’Italia) ha organizzato in maniera diversa rispetto agli anni precedenti e che gli Istituti per la Storia della Resistenza celebreranno con la forza delle parole: chiederanno a tutti di raccontare la Resistenza con una maratona-staffetta che “percorrerà l’Italia” da Nord a Sud (#raccontiamolaresistenza).
Le iniziative dei prossimi giorni serviranno a riaprire una riflessione storica essenziale per il nostro Paese, dopo anni di dibattito sulla «fine della storia» e l’affermarsi di un luogo comune che vuole la disciplina svuotata di ogni attrattiva: assistiamo, infatti, a un’autentica quanto inaspettata «fame di storia» che, cibandosi di fiction o di revisionismo spettacolare, contribuisce a svilire il senso di ciò che realmente è accaduto nel tempo.
Si assiste in sostanza a un paradosso: da una parte cresce la «domanda» di storia, che induce un autentico boom della produzione di tipo divulgativo, dall’altra si verifica lo strangolamento della produzione scientifica in senso proprio, per la quale non si prospettano fondi, né sbocchi editoriali, né strategie di reclutamento e formazione di giovani studiosi.
E come se non bastasse, la sovrapposizione sempre più frequente tra storia, romanzo e fiction scardina presso le nuove generazioni il senso della storia come scienza e rende il confine tra il vero e il verisimile, e perfino il falso, invisibile o irrilevante.
Non deve essere accettabile che siano la logica del mercato e la visibilità mediatica a decidere cosa trasmettere al pubblico, a prescindere da falsità, inesattezze, scoop inventati e perfino pericolosità di certe teorie, come dimostra la ripresa attuale delle tesi del “revisionismo” e del “negazionismo storico”. E proprio per evitare rischi di questo genere, vediamo perché è così importante, nonostante il coronavirus, festeggiare il 25 Aprile, la Festa della Liberazione dal nazifascismo (1945).
Difendere la Repubblica democratica e antifascista nata dalla Resistenza è diventato un tratto essenziale dell’azione politica e culturale democratica perché con essa è nata una nuova Italia dopo la vergogna del fascismo. E l’antifascismo, al di là delle ideologie dei partiti, è stato il fenomeno politico e culturale più importante nell’Italia del secondo dopoguerra. Un’Italia che aveva avviato una trasformazione progressiva delle basi economiche e sociali, nella quale finalmente il mondo del lavoro potesse avere un ruolo centrale, superando così la politica antioperaia del ventennio, ma anche il conservatorismo prefascista che aveva escluso dalla vita del Paese le grandi masse popolari. E anche se tutto ciò non è stato pienamente realizzato, nessuno che abbia sinceri sentimenti democratici può seriamente pensare che i limiti e le difficoltà che l’Italia ha sofferto in questi decenni possano essere sanati smantellando la Costituzione e le istituzioni democratiche.
Peraltro, in Italia è invalsa negli ultimi decenni una moda: sminuire la ferocia del nazifascismo, paragonandolo ad una villeggiatura della quale i prigionieri politici antifascisti dovrebbero essere grati al duce, e per paradosso vengono denigrati i partigiani, e con loro la Resistenza antifascista, cioè chi ha portato la pace, la libertà e la democrazia.
Noi dobbiamo rispondere con fermezza rivendicando il sacrificio e la lungimiranza di coloro che si opposero al fascismo sin dal suo primo sorgere, nei drammatici anni Venti subito dopo la Prima guerra mondiale, e continuarono la lotta durante la dittatura feroce, dopo le ‘leggi fascistissime’, pagando con il carcere duro o con l’esilio la scelta di non piegarsi al regime. E qui è giusto ricordare, tra gli altri, il sacrificio di Matteotti, di Gramsci, dei fratelli Rosselli.
Finalmente dopo l’8 settembre del ’43 iniziò la Resistenza, la guerra di Liberazione che i partigiani, uniti con gli Alleati, portarono avanti fino al 25 aprile del 1945 con l’obiettivo di risollevare l’Italia dal fango e dalla vergogna nella quale l’aveva gettata il regime mussoliniano, che irresponsabilmente aveva trascinato il nostro Paese nella guerra voluta dal nazismo. Ma non contenti di ciò i fascisti, anche dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia e la firma dell’armistizio, continuarono a stare dalla parte della barbarie dei nazisti seguendoli nella loro folle azione di sterminio e di annientamento.
Per responsabilità del fascismo, l’Italia era precipitata , e continuava a precipitare nel baratro della guerra, della miseria, dello sfruttamento. Solo l’azione unitaria e di massa del popolo italiano avrebbe potuto, come in effetti poi accadde, salvare il nostro Paese da una catastrofe.
Ma per comprendere ancora meglio quale rischio mortale abbia corso l’Italia, (anche perché senza la Resistenza e lo sganciamento dalla Germania hitleriana gli Alleati ci avrebbero punito ancor più severamente), basta porsi la domanda ovvia ed elementare su quali sarebbero state le conseguenze della vittoria dei repubblichini di Salò alleati coi tedeschi, invece di quella dei partigiani combattenti dalla parte degli Alleati nella guerra antinazista. Non sarebbe stata forse la perpetuazione, anzi il rafforzamento del dominio del nazismo sull’intera Europa? Quale futuro avrebbe avuto la nostra patria? In quale terribile nazione saremmo stati costretti a vivere?
La Resistenza, dunque, come punto alto della storia italiana (una delle quattro R: Rinascimento, Risorgimento, Resistenza, Repubblica) perché ha visto il protagonismo dell’intero popolo italiano, che umiliato dal ventennio fascista e dalla Seconda guerra mondiale, seppe trovare la forza materiale e morale per riscattarsi e risorgere. Peraltro, nel nostro Paese non era mai venuta meno l’attività antifascista, che con grande sacrificio le forze democratiche e di sinistra avevano portato avanti contro il totalitarismo fascista. Le formazioni partigiane testimoniavano, non a parole, la critica che il popolo italiano aveva sviluppato negli anni della dittatura; e con la loro forza organizzativa, con i loro ideali, con il loro sacrificio dimostravano l’esistenza di un’altra Italia. Di quell’Italia che non voleva tornare allo stato liberale pre−fascista frutto di una borghesia che pur di non allargare le basi dello stato alle grandi masse popolari, rappresentate in quel contesto dai socialisti e dai cattolici, fece una rapida virata a destra e preferì distruggere l’ansimante stato liberale piuttosto che dare riconoscimento politico e sociale alle classi subalterne.
La Resistenza, pertanto, si richiamò al Risorgimento per l’alto valore politico e morale, ma seppe andare oltre lo stesso Risorgimento vista la partecipazione di massa, gli interessi sociali che mise in campo, gli ideali del lavoro, della tutela dei diritti individuali e collettivi, della solidarietà, della pace, della libertà di pensiero e d’espressione, dell’autonomia della scienza e della cultura, dell’uguaglianza e della giustizia sociale.
Gli ideali dell’antifascismo e della Resistenza, trasfusi in gran parte nella Costituzione della Repubblica, hanno concorso alla formazione di una coscienza civile che ha costituito il più saldo cemento dell’identità e dell’unità nazionale.
Ancora: la Resistenza rappresentò una novità senza precedenti nel rapporto masse-istituzioni e preparò la rinascita – o per alcuni la nascita – dei partiti di massa che hanno avuto un ruolo essenziale nella vita politica del Paese, anche se negli ultimi anni la vita dei partiti è stata piuttosto controversa. In quel torno di tempo si venne a creare tra le forze organizzate – gli uomini, le donne e i giovani di diverso orientamento – una dialettica tesa al confronto, che in qualche occasione assunse toni aspri, di posizioni politico-ideali molto diverse, ma che trovarono il modo di dialogare. Le grandi correnti politico-culturali che avevano segnato la storia italiana, quella cattolica, quella marxista, quella liberale, trovarono la sintesi alta tra le diverse ispirazioni e orientamenti, dando basi fondanti moderne e democratiche, e consentendo di avviare un processo di trasformazione sociale capace di superare la società classista ed elitaria del passato. Da queste diverse istanze, ben radicate nella vita del Paese, ci fu la nascita di uno ‘stato di diritto sociale’, la novità più rilevante rispecchiata e contemplata dall’ordinamento repubblicano.
Forze con matrici ideologiche e storiche lontane, in grado però di avvicinarsi, di dialogare, di traguardare l’immediato e il particolare, riuscendo a produrre risultati di dimensione epocale: la Repubblica, l’Assemblea costituente, la Costituzione.
Ecco, la Costituzione si fonda sul legame inscindibile tra democrazia e antifascismo, perché stabilisce la rottura tra l’Italia del secondo dopoguerra e il suo passato, simboleggiato dal fascismo e dalla tradizione liberal-moderata dello Statuto albertino.
La nuova Italia doveva essere democratica, perché le masse popolari non potevano più soffrire l’esclusione del secolo precedente, e antifascista, perché il fascismo aveva rappresentato la pagina più buia e il momento più basso dell’intera storia italiana.
Per questo la nostra Costituzione non è “ottriata”, cioè concessa, con le caratteristiche tipiche della costituzioni concesse dall’alto, cioè flessibile, breve, liberal−moderata, ma “conquistata”, strappata, e dunque avanzata perché rigida, lunga, democratico-sociale.
Dopo la vittoria nel referendum istituzionale del 2 giugno, l’Assemblea costituente che operò nei 18 mesi successivi elaborò la nuova carta costituzionale avendo come base un sistema di democrazia parlamentare caratterizzato dalla difficile modificabilità della carta costituzionale e da un preciso sistema di controlli e bilanciamenti tra i diversi organi dello stato per impedire che in futuro si potesse instaurare un regime autoritario o qualsivoglia forma di accentramento del potere.
Insieme alla democrazia politica c’è un preciso impegno a realizzare anche quella economica e tanti articoli hanno una visione sociale, che ha permesso, pur con aspre battaglie, al mondo del lavoro di progredire e di avere un’esistenza degna di essere vissuta.
Aver richiamato le radici e l’origine della nostra Costituzione vuol dire guardare ad essa non solo come un documento, ma anche come un processo, nel senso che appare formata da norme programmatiche che spetta alle varie componenti della società italiana rendere concrete. E’ il problema della sua attuazione in alcuni casi e della mancata attuazione in altri casi; è il problema che riguarda la storia politica del nostro Paese, che non ha potuto godere di una democrazia compiuta perché le forze che maggiormente rappresentavano il mondo del lavoro non hanno potuto governare in virtù di veti interni e internazionali (conventio ad excludendum). Ma nonostante ciò la Costituzione è rimasta viva perché ha accompagnato le trasformazioni e i cambiamenti dell’Italia repubblicana dal 1948 ad oggi, funzionando come sistema regolatore di questi cambiamenti: dimostrando così una ricchezza di ispirazione, che va ben al di là dei miseri attacchi cui è stata ed è sottoposta.
Analizzando sinteticamente i punti salienti e i principi fondamentali, rileviamo che la concezione lavorista trova la sua più solenne espressione nell’articolo 1, che definisce l’Italia una Repubblica democratica, fondata sul lavoro e sulla sovranità popolare; tutto ciò per dire che il nostro sistema democratico non è basato sul censo o su condizioni sociali acquisite ereditariamente. Il lavoro diventa valore fondante del nuovo stato, i lavoratori partecipano con piena dignità alla vita politica e sociale del Paese.
L’articolo 3, di cui fu artefice soprattutto Lelio Basso, afferma che “ Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono pari davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali.
E’ compito dello stato rimuovere gli ostacoli…”. Dunque, lo Stato che interviene per pareggiare, per aiutare; non lo Stato che si limita ad osservare, a registrare, le differenze sociali delle quali prende atto.
L’articolo 5, oggi di nuovo al centro dello scontro politico visto il contrasto Stato-regioni e delle regioni tra di loro, che così recita “ La Repubblica, una e indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”.
Così come occorrerebbe porre grande attenzione a quelle norme che riguardano i rapporti economici; in particolare, gli articoli 41, 42 e 43 che spiegano come la libera iniziativa privata è libera, ma “non può svolgersi in contrasto con l’utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l’attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali”.
Vorremmo tanto che di tutto ciò si ricordassero coloro che hanno in mano i destini del nostro Paese!
Ma è tutto l’impianto dei principi fondamentali che risulta avanzato e ancora attuale: i diritti inviolabili dell’uomo, l’uguaglianza formale e sostanziale, l’unità e l’indivisibilità della Repubblica, lo sviluppo della cultura, della ricerca scientifica e della tecnica, “il ripudio della guerra come strumento di offesa alla libertà degli altri popoli o come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali (articolo 11)”.
Ebbene, una Costituzione così avanzata e democratica ha suscitato da qualche anno la reazione scomposta e inconsulta delle forze che la osteggiano perché vorrebbero tornare all’Italia dei privilegi, del censo, dei lavoratori ridotti a umili servitori; da forze che non vedono l’ora di rompere l’unità del Paese per tornare alla fine dell’universalismo e della pari dignità, alla cancellazione dei diritti collettivi, alla soppressione dei contratti nazionali. Tutto ciò condito con elementi di razzismo, di intolleranza, di oscurantismo, a volte di puro integralismo.
Molto spesso le modifiche – teniamo conto che negli anni passati tantissimi articoli della parte II sono stati modificati – sono peggiorative; svuotare la Costituzione vorrebbe dire creare un Paese autoritario, privato della libertà di stampa, con una magistratura imbavagliata e dipendente dal potere politico, un Paese nel quale nessuno possa contestare e contrastare lo strapotere dei più forti, dei corrotti, degli incolti e degli arroganti.
In conclusione, mi piace citare le bellissime parole che uno dei padri costituenti, Piero Calamandrei, usava nel suo libro “Uomini e città della Resistenza”: “ Gli uomini della Resistenza volevano costruire un mondo giusto, dove tutti gli uomini vivano del proprio lavoro, dove ogni uomo conti veramente per uno, dove ogni cittadino sia libero di esprimere la propria opinione dalla sua tribuna…per questo i martiri ci chiedono di essere degni di loro, considerando la loro fine un punto di partenza che doveva segnare ai superstiti il cammino verso l’avvenire”.
Salvatore Distefano
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