In un recente articolo di TdS si legge un’affermazione della senatrice Granato per la quale il lavoro non si premia, ma si retribuisce. Sembra l’enunciazione di un principio quasi ovvio, ma ha suscitato una immediata reazione da parte di alcuni esponenti del maggior sindacato dei Dirigenti Scolastici. Nel chiaro intento di confutare il principio richiamato dalla senatrice Granato, un dirigente si spinge a fare un raffronto con lo “stipendio” dei parlamentari tentando di cogliervi una finalità premiale. E’ un raffronto che rischia di produrre gravi confusioni e merita qualche chiarimento.
Sarà pur vero che la parola “stipendio” viene comunemente utilizzata nell’ampia accezione di paga o di compenso, ed è anche vero che la storica trascuratezza nei confronti dell’educazione costituzionale non induce gli italiani ad utilizzare un linguaggio preciso nelle questioni di carattere giuridico ed economico, tuttavia da un D.S. ci si aspetterebbe una maggiore attenzione alle parole. Le parole sono importanti.
Per i parlamentari non esiste uno “stipendio”, quello del parlamentare non è un lavoro retribuito, è una funzione di rappresentanza per la quale è prevista una indennità di funzione. Le parole sono diverse perché indicano situazioni diverse.
La funzione parlamentare si esplica anche nella semplice espressione di voto che nessuno potrebbe equiparare ad un lavoro. Inizialmente tale funzione non prevedeva alcun compenso perché si riteneva che l’impegno richiesto da una carica altamente onorifica fosse compensato dall’onore stesso che era conferito dalla carica. In mancanza di una indennità accadeva che l’accesso alle funzioni parlamentari fosse riservato ai percettori di grosse rendite, non poteva accedervi chi aveva bisogno di lavorare per vivere. Ciò non costituiva un problema nella vecchia democrazia che fino al 1912 limitava anche il diritto di voto ai soli cittadini più abbienti. Poi, quando fu istituito il suffragio universale maschile, la legge introdusse anche una indennità in modo da consentire l’accesso alle cariche politiche anche alle classi lavoratrici. Non era una retribuzione e non aveva alcuna finalità premiale.
La successiva parificazione dell’indennità allo stipendio di un magistrato di alto grado serviva da un canto a fissare un limite, dall’altro conferiva a tutti, senza distinzioni, un’agiatezza che scongiurasse il rischio di facili condizionamenti. Il rischio era proprio quello che qualcuno potesse “premiare” il parlamentare in base ad una valutazione di apprezzabilità della sua azione politica e che qualche parlamentare accettasse il “premio”. In democrazia ciò non deve accadere perché chi è stato eletto al Parlamento deve “rappresentare la nazione”, quindi ha l’obbligo morale e giuridico di rifiutare qualunque “premio” da chiunque. Il premio infatti potrebbe adombrare un intento corruttivo, ma anche se a distribuire i premi fosse il Presidente della Repubblica in ciò si ravviserebbe una ingerenza rispetto al potere legislativo.
Detto questo dovrebbe esser chiaro, non solo che non vi è alcun aspetto di carattere premiale nell’indennità di funzione, ma si dovrebbe vedere anche l’inutilità di un confronto tra la retribuzione dei lavoratori e l’indennità dei parlamentari. Evitiamolo e proviamo a ragionare un po’ di stipendio e di stipendio degli insegnanti.
Un sistema premiale può essere utile per incentivare a lavorare meglio? In tutti i sistemi produttivi si è affacciata la necessità di ricorrere a sistemi premiali. Ciò è avvenuto in più modi: premi di produzione, provvigioni, retribuzioni a cottimo, ecc. e talvolta si è usato anche il metodo punitivo (decurtazioni di paga, demansionamento, licenziamento, ecc). E’ il metodo del bastone e della carota.
E’ stato utilizzato sia nelle aziende del mondo capitalistico, sia in quelle del socialismo reale (nella Russia sovietica gli eccellenti risultati di Stachanov non potevano essere premiati con aumenti salariali ma venivano premiati con onoreficenze), perciò è comunemente accettata l’idea che sia l’unico metodo realmente valido per assicurare più efficienza ai sistemi produttivi. Tuttavia è anche noto che senza le dovute limitazioni un sistema punitivo può facilmente degenerare in abusi e anche in vere persecuzioni. Perfino il salario a cottimo, che punitivo non è, rischia di ingenerare nei lavoratori uno stacanovismo autolesionista.
Per evitare questo rischio negli anni ‘60 le aziende di Adriano Olivetti avevano adottato un sistema premiale basato sul cottimo con incremento marginale decrescente. Era un limite progressivo incluso nella stessa misura del premio. Nei settori in cui la premialità non ha trovato limiti (vedasi benefit e stock-option previsti per i manager) si sono verificate forti distorsioni nei rapporti tra gli interessi del management, quelli degli azionisti e quelli generali del mercato diventando anche causa di gravi crisi di sistema. I limiti sono necessari e devono tener conto anche della tipologia di azienda e della tipologia di lavoro.
Nelle aziende pubbliche il sistema premiale è esposto ad un rischio di eterogenesi dei fini perché a conferire il premio non sarà mai un padrone interessato alla stabilità dell’azienda, sarà necessariamente un dirigente che è sempre portatore di interessi propri che non coincidono né con l’interesse generale, né con quello dell’azienda che non gli appartiene. Tale considerazione dovrebbe essere da sola sufficiente a sconsigliare l’uso di sistemi premiali sia nelle aziende di proprietà pubblica, sia in quelle private che operano su concessione pubblica (vedasi il caso di Autostrade dove il manager premiato sulla misura dei profitti è incentivato a trascurare le manutenzioni).
La logica premiale, sconsigliabile in qualunque settore legato all’interesse pubblico, appare quasi incompatibile col sistema scolastico che non ha neanche i caratteri di un sistema produttivo, ma come ci ha insegnato Piero Calamandrei è una istituzione con finalità totalmente diverse. Le medesime considerazioni valgono anche per le scuole private che hanno ottenuto un riconoscimento o una parificazione in quanto impegnate a perseguire un interesse pubblico all’istruzione e all’educazione dei giovani.
Sono ormai trent’anni che non è più considerato un crimine il prendere interesse privato nell’esercizio di una funzione pubblica, ma ciò non significa che la commistione di interessi sia diventata auspicabile. Resta comunque rischiosa e dannosa. Ma oltre alla necessità di evitare i conflitti di interesse, c’è una ragione ancor più pregnante che sconsiglia di ricorrere alla premialità nell’attività di insegnamento, pubblico o privato che sia, e lo possiamo comprendere dagli studi scientifici che giustamente Daniel Prink pone tra i più consolidati delle scienze sociali ma anche tra i meno conosciuti. Vi consiglio caldamente di seguire la sua presentazione visibile in un breve video su YouTube.
Il primo studio che dimostrò l’effetto controproducente di un sistema premiale negli ambiti lavorativi che richiedono una buona dose di creatività fu pubblicato da Sam Glucksberg nel 1962.
Gli esperimenti condotti a livello psicologico dimostrarono che nell’esecuzione di compiti in cui il risultato non si raggiunge mediante un procedimento di facile individuazione, la promessa di un premio tende a restringere l’attenzione e di conseguenza peggiora le possibilità di trovare soluzioni adatte a raggiungere il risultato. Le scoperte di Glucksberg sono poi state confermate da numerosi studi successivi e ormai non possiamo stupirci se un esperto del livello di Nicholas Negroponte possa affermare a ragion veduta che nell’insegnamento “la competizione è la radice del male”. (http://aulazero.blogspot.com/2015/10/la-competizione-e-la-radice-del-male.html)
E’ alla luce di consolidati studi scientifici che possiamo comprendere perché le riforme attuate in Italia negli ultimi decenni hanno solo peggiorato la situazione. Esse puntavano sull’autonomia scolastica non come ampliamento della libertà di insegnamento e di apprendimento, bensì come costruzione delle condizioni necessarie alla concorrenza tra scuole e tra insegnanti. L’effetto è stato disastroso. Se oggi si leggono testimonianze come quella di Giuseppe Iaconis su TdS e l’altra recentemente pubblicata da TdS non possiamo relegarle a casi sfortunati in cui la concorrenza non è riuscita a dare buoni frutti per colpa di qualche elemento distorsivo, dobbiamo invece riconoscere che le ricadute negative (i migliori docenti, depositari di cultura e di saggezza, che restano emarginati, mentre gli altri smaniano per contendersi incarichi, progetti e incentivi) sono effetti che derivano direttamente dalla scelta di metodi sbagliati: concorrenza e premialità.
Sono molti i dirigenti scolastici che in assoluta buona fede si stanno impegnando nella direzione indicata dalle riforme e spesso purtroppo tendono ad incolpare degli insuccessi coloro che si dimostrano “contrastivi”. A mio avviso sarebbe meglio riflettere maggiormente sulla bontà del cammino intrapreso, magari considerando anche la possibilità di conservare un modello educativo che aveva dato ottimi frutti e che potrebbe darne ancora. A ben vedere la celebrazione del nuovo modello concorrenziale proviene solo da una classe imprenditoriale che finora s’è dimostrata incapace di accogliere e valorizzare le eccellenze che la scuola italiana aveva prodotto. Il nostro sistema scolastico porta alla laurea una bassa percentuale di studenti, ma oggi le imprese non hanno nulla da offrire neanche a quei pochi laureati e ancor meno ai migliori, anzi arrivano a sconsigliare alle famiglie di orientarsi verso percorsi liceali o universitari. Evidentemente sono rimasti prigionieri di una obsoleta visione del lavoro e consigliando allo Stato di creare una ‘carriera dei docenti’ e di introdurre incentivi premiali dimostrano di non conoscere neanche i buoni metodi di motivazione dei lavoratori.
A tutto questo aggiungo un’ultima considerazione: l’insegnamento non è soltanto un lavoro creativo che richiede capacità di trovare soluzioni sempre nuove di fronte alle esigenze in continuo mutamento delle nuove generazioni, quindi predisposto a peggiorare con la prospettiva di premi, l’insegnamento è anche una relazione umana che si svolge all’interno di una comunità simile ad un vivaio. Deve trasmettere valori che sono più importanti anche delle conoscenze. Per questo ha bisogno di rapporti autentici che richiedono libertà di coscienza. Non sarà mai un buon insegnamento quello vincolato da pedagogismi, eterodiretto o irreggimentato. I nostri padri lo sapevano, perciò avevano preposto ad ogni scuola un docente in funzione di Preside e non un direttore che era invece posto a capo di ogni altro tipo di ufficio pubblico.
La nostra Costituzione ha espresso a chiare lettere il principio per cui “l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento”. Questo importantissimo principio esclude la possibilità di governare dall’alto gli insegnanti col metodo del bastone e della carota. La scuola può trasmettere valori solo se strutturata come “comunità educante” dove tutti sono attori liberi e consapevoli e nessuno è forzato da premi o fermato da minacce. Se anche non esistessero gli studi che sconsigliano a qualunque azienda di prevedere incentivi economici per le prestazioni intellettuali di carattere creativo, nella scuola sarebbero comunque da evitare per salvaguardare la sua vera funzione che non può essere asservita né all’esigenza contingente delle imprese commerciali, né agli obiettivi di qualche progetto ideologico-politico.
Tommaso Palermo
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