Dopo due mesi di totale lockdown, lo scorso 17 maggio, il primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu aveva annunciato la riapertura delle scuole del paese, facendo riferimento ai dati all’epoca disposizione che offrivano un quadro più che rassicurante con appena 10 nuovi casi, nel giorno antecedente il nuovo ingresso nelle aule per le lezioni in presenza dei giovani israeliani.
Già nei giorni precedenti era stato attuato un rientro in aula scaglionato e in gruppi ridotti, chiamati “capsule”, con orari alternati. Prima che la decisione governativa avesse luogo il direttore dell’Israeli Association of Public Health Physicians, Hagai Levine, aveva condiviso il monitoraggio della situazione sanitaria nel paese e aveva indicato ai responsabili del governo israeliano misure che promuovessero la cautela rispetto alla riapertura totale.
A due settimane dall’inizio delle lezioni, a inizio giugno, il gruppo di controllo della diffusione del virus registrava 244 nuovi casi (globalhealth.washington.edu) tra studenti e staff.
Nelle ultime settimane sono emersi, insieme ai dati ufficiali relativi all’aumento dei casi in Israele, anche quelli che riguardano nello specifico il corpo docente e gli studenti: il 2 luglio scorso infatti Eric Feigl-Ding, epidemiologo ed economista sanitario della Federazione degli scienziati americani, ha twittato un grafico che ha mostrato il tasso d’infezione di Israele, esattamente dopo un mese dalla riapertura delle scuole israeliane.
Il livello di contagio scolastico è diventato pubblico la scorsa settimana durante la testimonianza fornita ai legislatori israeliani da Udi Kliner, il vicedirettore dei servizi sanitari pubblici del Ministero della Sanità, il cui capo si era appena dimesso per protestare contro la cattiva gestione della crisi da parte del governo.
“La fonte dell’esplosione dell’infezione può essere vista chiaramente nei numeri di giugno” ha detto Kliner alla Knesset (il Parlamento monocamerale di Israele), e ha affermato che “il mese scorso sono stati diagnosticati 1.400 israeliani con la malattia: di questi, 185 l’hanno contratta in occasione di eventi come matrimoni, 128 negli ospedali, 113 nei luoghi di lavoro, 108 nei ristoranti, bar o discoteche e 116 nelle sinagoghe, mentre 657 – ovvero il 47 per cento del totale – sono stati infettati dal coronavirus nelle scuole”.
L’attenzione dell’opinione pubblica nei confronti del livello di contagio dovuto secondo molti alla riapertura totale delle scuole è salita drammaticamente in questi giorni in Israele, andandosi a collegare alle posizioni delle varie parti politiche, che sul tema stanno ingaggiando una battaglia mediatica significativa.
“Non è stata preparata nemmeno una scuola”, dice Mohammad Khatib, che insegna salute pubblica al Zefat Academic College ed è l’esperto epidemiologo del comitato consultivo sul coronavirus del ministero della salute, di recente formazione, nel settore arabo.
“Gli adulti, compresi gli insegnanti e gli altri dipendenti, lo hanno portato nelle scuole, che sono, alla fine, spazi chiusi”, ha aggiunto, sottolineando la constatazione che bambini e adolescenti delle scuole medie si sono rivelati i vettori più pericolosi. “Gli studenti più giovani erano più obbedienti e più facili da controllare in classe”, ha detto ancora Khatib, “e avevano più rispetto per i loro insegnanti. Tra i liceali, c’era una maggiore capacità di comprensione. Ma i ragazzi delle scuole medie hanno manifestato maggiore ribellione verso gli insegnanti, non indossando maschere o non rispettando le distanze sanitarie”.
Levine, il già citato epidemiologo dell’Università Ebraica, ha detto che in generale “non c’è trasparenza per quanto riguarda le statistiche. I dati non vengono messi a disposizione degli epidemiologi, quindi è impossibile valutare con precisione, ma abbiamo visto molti casi confermati di COVID-19 nelle scuole medie – il che indica che sia molto probabile quale focolaio dell’epidemia”.
Un’ulteriore testimonianza viene da parte di Galia Rahav, che presiede il reparto di malattie infettive dello Sheba Medical Center di Tel Aviv, che ha detto in un’intervista che “quello che succede nelle scuole è giorno dopo giorno, la condivisione di ambienti affollati e spesso i bambini tornano a casa e infettano mamma e papà”.
Gerusalemme si conferma ad oggi la città israeliana con il più alto tasso di infezione, la maggior parte delle persone con COVID-19 ha meno di 35 anni.
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