Visti i dati incoraggianti, tutti ora ad invocare la riapertura di questa o quella attività.
Tutte, fuorché la scuola.
Del resto è diversa la socialità immediata e spontanea dei ragazzi e bambini e quella degli adulti, del mondo del lavoro.
In mezzo abbiamo le movide, con le criticità già rilevate.
Dunque, come considerare e gestire il “rischio”, cioè quel punto di mediazione tra sicurezza ed aperture?
C’è un modo, od un metodo, che possa aiutare tutti a cercare e trovare questo punto di mediazione? O dobbiamo lasciare le decisioni al solito decreto di turno, con i governatori che fanno poi a gara tra di loro?
La questione di fondo la sappiamo tutti: per garantire la sostenibilità del sistema sanitario, quindi la protezione della vita umana, vanno sacrificate e subordinate tutte le forme di relazioni, cioè i nostri diritti?
Anche le conseguenze le conosciamo, a partire dalla gravissima crisi, non solo economica, che è in atto e che ci sarà compagna per i prossimi anni.
Dunque, l’etica del rischio, cioè la sua praticabilità, la sua sostenibilità a livello personale, famigliare, sociale, globale.
Tutti ricordiamo, a febbraio, le rassicurazioni: “tutto è sotto controllo”, per poi vedere con i nostri occhi che così non era. Come ci ricordiamo quell’”andrà tutto bene” che, a marzo, ci siamo scambiati, facendo tutti gli scongiuri.
Ma come dimenticare i tanti e tanti morti, come quella fila di camion militari a Bergamo?
Ora il tema è aprire, ma in sicurezza, con le regole che ben conosciamo: mascherina, gel di continuo,e, soprattutto, distanziamento.
In molti stanno cercando di far finta che tutto sia già passato, con quella disinvoltura da incoscienti che, purtroppo, non è cosa rara.
Dunque, l’etica del rischio.
Cioè come ridurre al massimo il rischio, ma andare al lavoro, vivere le relazioni, uscire di casa.
Alcuni, penso al mondo della scuola, vorrebbero la garanzia del “rischio zero”, cosa di per sé impossibile, perché azzerare il rischio significa non vivere, non affrontare cioè gli imprevisti che la vita ogni giorno ci può preparare.
Allora non resta che convivere col virus, convivere con il rischio, sapere che qualcuno comunque può ancora ammalarsi, sino, si spera in fretta, ai benedetti vaccini.
L’etica del rischio ci dice, dunque, che bisogna imparare a convivere, a vigilare, a comprendere che il rischio è la vita stessa, la quale chiede solo di essere pensata non da soli, ma insieme.
Perché il mio rischio è, che ci piaccia o no, anche il tuo rischio, anche il rischio di tutti.
Ma questo rischio va insegnato e praticato, va cioè pensato come modo di dire la sostanza della vita. Senza maschere o scuse o paraventi.
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