Sembra davvero un ultimatum quello che i ricercatori universitari che svolgono didattica da diversi anni si apprestano a fare al ministro e al Governo, impegnati nella stesura del ddl di riforma accademica (già approvato in prima lettura del Cdm): se alla categoria dovesse essere preclusa la possibilità di fare carriera, accedendo non automaticamente al nuovo ruolo di professori di seconda fascia, in particolare a coloro che fanno didattica certificata da almeno sei anni, annunciano che ritireranno in massa la disponibilità a tenere le lezioni accademiche. Uno stop alle supplenze “eterne”, spesso a costo zero o comunque irrisorio per le Facoltà, che metterebbe in ginocchio diverse università italiane: centinaia, forse migliaia, di corsi rimarrebbero privi del titolare delle lezioni. E per i docenti ufficiali, associati o ordinari, sarebbe impossibile sostituire i ricercatori trovando valide alternative.
La decisione è stata presa nei giorni scorsi dal “Coordinamento nazionale ricercatori universitari” dopo i risultati schiaccianti di un sondaggio cui hanno partecipato quasi 5.000 dei 25.000 ricercatori attivi nel panorama accademico italiano: in 3.887 (il 79.9%) si sono dichiarati favorevoli alla ipotesi di attivazione di maggiori possibilità concorsuali e di inquadramento nella docenza, con possibilità di raggiungere il IX livello, per coloro che hanno svolto almeno sei anni di didattica certificata. Il Cnru ha ufficialmente invitato “tutti i ricercatori universitari a non accettare incarichi per affidamento e supplenza per il prossimo anno accademico” e ad avviare “forme di lotta immediate che comprendano anche la sospensione dell’attività didattica“.
Per completezza, l’attuale testo del ddl Gelmini prevede una possibilità di carriera. Solo che il passaggio all’idoneità come prof associato non sarebbe automatico, come richiesto dal Cnru, ma sottoposto ad una verifica di tipo concorsuale. E coloro che ce la faranno resteranno fuori per sempre dall’Università.
“Lo spirito della proposta – si legge nella proposta – è quello di cercare di dare un po’ meno a molti piuttosto che tutto il possibile a pochissimi (vista la scarsità di risorse), evitando di vanificare il tentativo di soluzione del problema del riconoscimento del ruolo docente svolto alla maggior parte dei colleghi“.
Il coordinamento, che nel frattempo ha proclamato lo stato di agitazione, spiega anche che “qualora il Governo e le forze di maggioranza non dovessero accogliere o discutere tale proposta, l’unica alternativa per i ricercatori non potrà essere che il ritiro della disponibilità a ricoprire incarichi didattici per il prossimo anno accademico e a tal fine invita i ricercatori di tutte le sedi a predisporsi a tale evenienza“.
Il coordinamento ha chiesto anche ai docenti delle altre fasce di partecipare alla protesta non accettando ulteriori incarichi di docenza al di fuori di quelli istituzionali: “se ciò avverrà – dice Marco Merafina, coordinatore Cnru – lo scopriremo cammin facendo. La questione non è tanto sulla loro disponibilità ma sulla loro mancanza di consapevolezza, di informazione e di organizzazione“. Qualora la proposta non dovesse trovare accoglimento nemmeno in fase di discussione, presso le commissioni parlamentari e gli organi di competenza, la mobilitazione potrebbe scattare prima dell’autunno: “le forme di lotta più immediate – sottolinea il coordinatore nazionale – come il blocco delle lezioni sono affidate alle iniziative locali: in queste ore moltissimi atenei si sono riuniti o stanno per riunirsi per decidere del prossimo anno accademico e per il futuro immediato. Io, personalmente ho già sospeso le mie lezioni“. E lo stesso stanno facendo altri ricercatori accademici sparsi per la penisola: notizie di blocchi della didattica si hanno anche alla Federico II di Napoli (che con Roma fa da capofila nella protesta), ma anche a Milano, Torino, Genova, Bologna, Siena, Pisa, Firenze, Bari e Cagliari. Le volontà del Cnru verranno presentate al Miur durante un incontro fissato a viale Trastevere per mercoledì 24 marzo.