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Come ridare autorevolezza a genitori e scuola? Galimberti e Crepet sognano il “ritorno all’ordine e al passato”, ma la semplificazione è dannosa e fuorviante

CobasCobas

Una delle più grandi insidie che impediscono alla riflessione sull’educazione di procedere in senso progressivo e rendono ancor più arduo tentare di sciogliere i nodi che rendono difficoltoso sia l’apprendere sia l’insegnare è costituita dalle semplificazioni cui indulgono certi intellettuali e sedicenti “esperti” del settore. Per tutti costoro, in sostanza, basterebbe un “ritorno all’ordine” per restituire autorevolezza agli adulti (genitori e non) e alla scuola. Studiosi del calibro di Umberto Galimberti e di Paolo Crepet, che possono contare sull’attenzione di molti lettori, non esitano a proporre un “ritorno al passato” come soluzione dei mali presenti.

Quando la soluzione non consiste in un ritorno al passato, la soluzione non c’è. Prendiamo per esempio il professor Galimberti, che certo non può essere definito un ignorante. Cosa dice della scuola? Essa, parere suo, è “ostaggio di una “dittatura del narcisismoche pervade la nostra società. I ragazzi di oggi, bombardati da modelli irreali e ossessionati dall’immagine di sé, sono anoressici di certezze e si rifugiano in un mondo virtuale che li aliena dalla realtà”.

Benissimo, la penso anch’io così: ma la domanda vera è cosa si possa fare per aiutare i docenti ad opporsi ad una deriva potente, all’invasività di modelli che con forza colonizzano le menti di bambini e ragazzi. A quanto pare, secondo il professore, a questo devono pensare i docenti – gli insegnanti devono essere empatici, devono sedurre con la loro cultura etc. etc. in un susseguirsi di “dover essere” che disegna tal quale il non auspicabile modello del professor Keating (quello de L’attimo fuggente, l’insegnante seduttore per eccellenza). Cosa contano le condizioni materiali di lavoro dei docenti a fronte del fuoco sacro che dovrebbe animarli?

Dispiace che tanta finezza di pensiero, esercitata in altri ambiti da Galimberti, degradi, quando parla di scuola, in vieti luoghi comuni. Dev’essere un vezzo di Galimberti, quello di scendere talvolta dai coturni del discorso filosofico per approdare bruscamente sulla terraferma. L’abbiamo sentito dire ultimamente, a proposito della questione gravissima della guerra, che “le armi devono esserci come deterrenza” e, ancora, che lui guarda “con sospetto” ai pacifisti e che “la pace intorpidisce” (sic!).  

Un altro che sospende spesso e volentieri la capacità critica quando parla di scuola ed educazione è Paolo Crepet. I genitori di i 40-45 anni, sono “i peggiori della storia, perché sono cresciuti con l’idea che mettere limiti è una cosa riprovevole, che va agevolata la vita dei ragazzi in tutti i modi”. Come mai questi genitori non mettano limiti è interrogativo presto risolto: per non far fatica.

Eppure Crepet sa bene che la famiglia, anche per i più piccoli, non è da tempo l’“agenzia formativa privilegiata”. L’eredità non l’ha raccolta la scuola, ma è finita direttamente ai social media; e qui il garbuglio si fa difficile da sciogliere. Dietro l’emergenza educativa c’è un modello sociale in cui dominano le “passioni tristi”, che però, dalla classe dominante, vengono proposte come Virtù: competizione, meritocrazia (nel paese meno meritocratico mai visto!), imprenditorialità, che, come una tabe invadono il discorso educativo.

Ormai è da troppo tempo che tale discorso è inquinato da aspetti che hanno a che fare con l’economico. Un esempio recente ce lo danno le Nuove indicazioni: alla fine del primo ciclo di istruzione lo studente dovrebbe possedere competenze plurime, tra cui la multilinguistica, la personale, la sociale, la digitale, e anche la “competenza imprenditoriale: dimostrare spirito di iniziativa, produrre idee e progetti creativi. Assumersi le proprie responsabilità, chiedere aiuto e fornirlo quando necessario.

Riflettere su sé stessi e misurarsi con le novità e gli imprevisti. Orientare le proprie scelte in modo consapevole”. (pagina 17 delle Nuove indicazioni). Ora, o la competenza imprenditoriale la si esercita a 7-10 anni consultando il “Manuale delle piccole marmotte” o tutte queste affermazioni hanno un che di sinistro e ridicolo.

   Ma ecco che ci sono gli estimatori delle Nuove indicazioni, che conoscono la scuola da “esperti”. L’ultima ad esprimersi, in ordine di tempo, è suor Monia Alfieri: la religiosa, anche noto personaggio televisivo, appoggia le Nuove indicazioni che, afferma, porteranno alla” riscoperta delle nostre radici” attraverso lo studio di alcune materie; “storia, il latino, l’analisi grammaticale e quella logica”. Mi pare che tre di queste “materie” fossero studiate anche prima delle Nuove indicazioni.

E che il latino alle scuole medie sia un ritorno al passato, con la tenue speranza che ancora una volta il pensiero magico si affermi ed aiuti ragazzini intossicati dai media digitali (quegli stessi strumenti che schiere di neuropsichiatri hanno indicato come pericolosi se usati precocemente) a “pensare” attraverso lo studio dei primi rudimenti di una lingua antica.

Quanto allo studio della Storia, le Nuove indicazioni danno davvero un contributo prezioso. Chi è debole di stomaco si limiti a leggere l’incipit di pagina 68: “Solo l’Occidente conosce la Storia”. Gli altri procedano e giudichino da sé quanto lo studio della Storia, impostato nel modo proposto dalle Nuove indicazioni, aiuti a pensare. Il grottesco ritorno all’eurocentrismo che qua si propone fa scuotere la testa ad ogni persona di media cultura – ed io ringrazio i miei insegnanti che mi hanno parlato delle Crociate ma che mi hanno anche suggerito di leggere quel bel volumetto pubblicato da Einaudi tempo fa, intitolato Storici arabi delle Crociate. O forse erano soltanto cronisti?

Insomma, stupisce che una persona colta come suor Monia Alfieri, plurilaureata ed esperta di sistemi scolastici, non si scandalizzi di fronte ad un documento in cui si intrecciano banalità, boutade inaccettabili ed una visione decisamente inattuale della scuola, ravvivata da una spruzzata di innovazione tecnologica e di spirito efficientista.      Probabilmente più che la qualità del testo, la religiosa sarà rimasta convinta da quella luce soffusa che aleggia sulle N.I. e che va nella direzione della libertà di scelta pedagogica,  suggerendo un futuro radioso per le scuole non statali, argomento cui Alfieri è assai sensibile.

Ella avrà gradito anche la presenza, nel testo, sia dell’attivismo pedagogico sia soprattutto del pensiero di Emmanuel Mounier (esplicitamente citato, però, soltanto in una nota), il filosofo cattolico che fondò la rivista Esprit negli anni Trenta del Novecento, che collaborò con Maritain e che ipotizzò una “terza forza”, e un «personalismo comunitario», che esalta la persona (in quanto realtà spirituale unica e volta alla trascendenza: la parola “persona” ricorre per ben 38 volte nelle N.I.).

Di sicuro, tra gli estensori del documento ci sono seguaci di Mounier e le pagine iniziali, oltre ad essere all’insegna dei buoni sentimenti d’altri tempi ripropongono insistentemente aspetti del personalismo pedagogico. Chi avesse voglia di leggere le 154 pagine delle Nuove indicazioni vedrà quanto poco ci sia di concreto, di analisi dei problemi della scuola, di suggerimenti per la soluzione degli stessi e quanto trionfi la fuffa para-pedagogica e il pensiero acritico.

   A fronte di tanta pochezza teorica, si propongono risultati attesi e conseguiti dagli studenti assai ambiziosi. Bisogna essere onesti: forse è l’invidia che mi fa parlare. A pagina 26 leggo che, fra gli “obiettivi specifici” da conseguire si colloca il “saper dare un nome alle proprie emozioni e ai propri stati d’animo e saper trovare una prima risposta alle “grandi domande” sulla vita e sul mondo”.

Considerando che le “grandi domande” non hanno risposte definitive e che, sebbene adulta, trovi sempre una certa difficoltà a “dare un nome” alle emozioni e agli stati d’animo, mi trovo a considerare che non ho nemmeno raggiunto due tra gli “obiettivi specifici” della scuola dell’infanzia.

E basti questa osservazione, per quanto sarcastica, per affermare che la scuola va trattata meglio: le parole devono avere un senso ed è ora di finirla con la “scuola di carta” che propone modelli più o meno ben rifiniti che però non hanno nulla a che fare con la scuola vera, quella in cui il Maestro (a p. 9, maiuscolo e maschile, sic!) se la deve vedere ogni giorno con difficoltà che lo sovrastano, ingabbiato in una macchina burocratica in cui conta la forma e non la sostanza e che, negli ultimi tempi, sta pure prendendo una deriva nettamente reazionaria.

Giovanna Lo Presti

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