Ventinove pagine, un solo articolo di 212 commi: ha ancora un senso nel 2015 scrivere così i testi legislativi (qualunque testo legislativo)? Altrove in Europa le leggi le formulano così?
Un solo articolo, un escamotage per approvare più velocemente, certo: ma è un’anomalia ancora una volta tutta italica.
Il primo comma è un’astratta petizione di principi sulla quale è impossibile non essere d’accordo: proprio necessaria?
Principi costantemente ribaditi: non basta, però, ripeterli come un mantra, ma bisogna concretamente, pragmaticamente creare le condizioni per la loro realizzazione.
Qui è lecito più di un dubbio, leggendo il corposo testo.
Va però fatta con estrema chiarezza e con un minimo di onestà intellettuale un’affermazione preliminare: questa legge eredita un’impressionante situazione di sfascio organizzativo del “sistema istruzione” – unica in Europa e particolarmente accentuatisi negli ultimi tempi quando una scellerata idea di “razionalizzazione” ha fatto scempio della scuola come servizio pubblico – cerca di far fronte ad una situazione di (vergognoso) stallo ultradecennale quanto a norme sulla formazione e sul reclutamento del personale docente e dei dirigenti, che ha visto nel tempo provvedimenti improvvisati e tra loro contraddittori, senza mai una visione strategica, di lunga portata.
Dev’essere, credo, comunque almeno apprezzata come un tentativo di cambiamento, quanto nobile e quanto riuscito solo il tempo lo dirà.
Ciò detto, la prima osservazione è che ancora una volta si è messo dentro di tutto e di più, senza un’individuazione chiara delle priorità e delle urgenze.
Per questo, ritengo che la parte più importante – e la partita più grossa da giocare, senza alcun dubbio – sia quella prevista dai commi 180 e seguenti: la delega al Governo, entro diciotto mesi dall’entrata in vigore della presente legge, a predisporre, nella forma di uno o più decreti legislativi, un sistematico riordino dell’intera legislazione scolastica italiana, vera giungla da diboscare e autentica delizia solo per i legulei.
Il Testo Unico delle disposizioni in materia d’istruzione (D.L.vo n. 297/1994) è vecchio di più di vent’anni, ma soprattutto è anteriore alla nascita dell’autonomia scolastica: per non parlare delle norme che disciplinano gli organi collegiali, i famosi decreti delegati del 1974, che hanno festeggiato i quarantuno anni di vita, senza peraltro essere in ottima salute!
Verrà mantenuta questa previsione-promessa? O continueremo a giustapporre commi su commi, norme su norme, in un processo di caotica, insensata, perenne stratificazione?
Di questo ha davvero urgente bisogno la scuola: di semplificazione e deburocratizzazione, di un bel po’ di passi indietro da parte di un Ministero sempre e comunque invasivo e dirigista, in barba alla decantata e mai davvero realizzata autonomia scolastica.
Veniamo a qualche aspetto contemplato nel testo, in cui la mania dell’elencazione senza lasciar fuori nulla sembra quasi patologica.
La scuola (ogni scuola?) grazie all’organico dell’autonomia – panacea di tutti i mali: come poi concretamente si realizzerà, questo è ancora tutto da vedere; ovviamente, se funzionerà il merito sarà del lungimirante Governo; se fallirà, la colpa sarà delle scuole disorganizzate e incapaci di esprimere appieno la loro autonomia e dei docenti sempre ultraconservatori – dovrà farsi carico di (seguo l’ordine del comma 7, sintetizzando molto): valorizzazione e potenziamento delle competenze linguistiche, in particolare italiano e inglese; potenziamento delle competenze matematiche e scientifiche; potenziamento della cultura musicale, artistica, cinematografica, multimediale; potenziamento delle competenze per la cittadinanza attiva, per il rispetto della legalità e dell’educazione ambientale; potenziamento delle discipline motorie e di comportamenti per uno stile di vita sano; sviluppo delle competenze digitali; potenziamento dell’inclusione; incremento dell’alternanza scuola-lavoro; definizione di un sistema di orientamento.
Al comma 10, poi, compaiono anche le tecniche di primo soccorso, senza ovviamente che ciò comporti nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica!
Insomma, davvero, di tutto e di più, continuando a rovesciare sulla scuola incombenze e responsabilità, salvo poi crocifiggerla perché i risultati degli apprendimenti dei nostri studenti non sono all’altezza di quelli di altri Paesi europei, dove forse non si fa di tutto un po’!
Spetterà ovviamente all’autonomia scolastica – almeno quello, grazie di tanta libertà decisionale! – discernere e rendere possibile la (magica) realizzazione di questo formidabile “libro dei sogni”, con un POF che ora sarà triennale, salvo qualche maquillage annuale.
Della serie: si mira ad alzo zero senza rendersi conto che le armi sono delle cerbottane, non dei cannoni!
Aldilà ed indipendentemente dalle ovvie ed indifferibili urgenze circa la soluzione dell’infamia tutta italica del precariato – creato nel tempo ad arte da classi politiche insensibili ed incapaci e balzato alla ribalta solo per la reprimenda dell’UE – sarebbe stato auspicabile un diverso modo di procedere, iniziando anzitutto da una seria, articolata e scrupolosa disanima (che avrebbe potuto, anzi dovuto tranquillamente coesistere con la preoccupazione occupazionale dello smaltimento del precariato) degli ultimi provvedimenti legislativi: la famigerata “riforma Gelmini”, ad esempio, che ha spazzato via ore e ore di laboratorio dagli IT e dagli IP; che ha creato il monstrum di un indirizzo classico con più ore di latino che di italiano; che ha ridotto ovunque le ore di Arte; e l’elenco potrebbe certamente continuare.
Invece di normare i principi – la cosa tutto sommato più facile da fare – la gente che la scuola la fa quotidianamente (docenti, personale Ata e di segreteria, dirigenti, ma anche e non secondariamente gli alunni e le loro famiglie) si aspettava e si aspetta che si identifichino i mezzi, gli strumenti e i tempi per operare dei veloci, sostanziali cambiamenti.
Viene francamente un po’ da rimpiangere il “cacciavite” fioroniano!
In controluce qualcosa di positivo – ma anche lì solo a livello di principi – si intravvede: un richiamo all’”eccellenza italiana nelle arti” (comma 21: almeno una novità significativa rispetto alla gestione gelminian-tremontiana); una maggior attenzione all’alternanza scuola-lavoro (ma il “sistema duale” tedesco è davvero così improponibile come modello? Perché dobbiamo sempre ispirarci ai paradigmi anglosassoni e non guardare anche ad altri?); una maggiore attenzione – sperando non resti sulla carta – al curriculum dei docenti; la previsione della cadenza triennale dei concorsi a cattedre: se mai venisse rispettasse, sarebbe una novità epocale!; e, last but not least, l’affermazione, una volta tanta inequivoca, che la formazione in servizio dei docenti di ruolo è obbligatoria, permanente e strutturale (comma 124).
Il che riporta a quello che secondo me è il vero punto centrale, la priorità delle priorità: come si diventa docente in Italia?
Cosa significa essere insegnante? Quali competenze si devono acquisire, mantenere, aggiornare e potenziare in tutto il corso dell’attività professionale?
E qui come non dolersi del fatto che i commi 115-117 non innovano affatto “il periodo di formazione e di prova” dei neoassunti, continuando a perpetuare un rito meramente formale, senza individuare procedure e metodologie per rendere significativo e qualificante l’ingresso in servizio, prevedendo anche un maggior rigore: con buona pace delle tante, troppe parole sulla “valutazione”, se concretamente nemmeno la si attua all’inizio della carriera professionale!
Si dice, per ottenere facili applausi, che “la scuola è degli studenti, dei giovani”: mezza verità.
La scuola è di tutti: sia di chi la frequenta sia anche di chi magari non ha rapporti diretti con tale istituzione (ricordiamo Calamandrei).
Ma la scuola, anzitutto, la fanno i docenti.
E se si continua pervicacemente a non preoccuparsi di come “fare”, cioè “formare” i docenti, non si avrà mai una “buona scuola”.
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