Tutti vogliono cambiare, se non cancellare, la riforma Fornero. I lavoratori, prima di tutto. Come loro la pensano diversi politici, che, ad un mese esatto dalle elezioni per definire l’assetto della nuova legislatura, si accavallano nel ripetere lo stesso concetto: andare in pensione a 67 anni non è possibile.
Lo ha detto, chiaramente, Luigi Di Maio, intervistato dalla Tecnica della Scuola qualche settimana fa, sostenendo che va cancellata assieme al Job Acts e alla Buona Scuola. Lo ha promesso Matteo Salvini leader della Lega a Di Martedì su La7, sostenendo che “”il difetto della Fornero è che tutto veniva fatto in botto, dalla sera alla mattina, un conto è adeguare di qualche mese se sale l’aspettativa di vita: per tutti quelli derubati da anni di vita la proposta del centrodestra è che dopo 41 anni di contributi versati c’è una cosa sacrosanta che è quella di andare in pensione”.
Lo ha sottolineato il 4 febbraio Maurizio Landini, componente della segreteria nazionale della Cgil, parlando del Jobs Act, a Napoli, spiegando che “è necessaria una riforma delle pensioni”, perché oggi “i giovani non solo non hanno lavoro, ma in futuro non avranno una pensione” e quindi “non bisogna essere un professore universitario per capire che non può funzionare portare l’età pensionabile a 67 anni e poi denunciare che c’è la disoccupazione giovanile”.
Delle modifiche alla riforma Fornero, seppure non radicali, le auspica anche il leader di Forza Italia, Silvio Berlusconi: “Non la aboliremo – ha detto il Cavaliere -, interverremo dove e è giusto intervenire. Con la Lega abbiamo parlato di come superare quegli aspetti della legge Fornero che, tra l’altro, sono già stati rivisti. Faremo un esame preciso ed elimineremo quegli aspetti che ci sembrano ingiusti”.
Meno drastici sul destino dell’ultima riforma pensionistica, si dicono anche il Partito Democratico e pure Liberi e Uguali, per va solo cambiata e migliorata.
Ma quale sarebbe il prezzo da pagare per la società, qualora la Legge Fornero venisse meno, se quindi si introducesse una soglia pensionistica più bassa? La decisione non sarebbe indolore.
C’è chi sostiene che i costi ricadrebbero soprattutto sulle spalle delle famiglie. Sempre il 4 febbraio, il Codacons ha calcolato che lo stop alla legge Fornero determinerebbe un maggior esborso di 3.333 euro a famiglia. Ovviamente l’anno. Nel senso che si avrebbero effetti diretti, negativi, sulle detrazioni, delle deduzioni fiscali, delle cedolari secche e dei crediti di imposta che riducono il prelievo sui contribuenti italiani (le cosiddette “tax expenditures”).
Queste “voci”, ha calcolato, l’Ufficio studi della Cgia di Mestre, sono 466 e costano allo Stato 54 miliardi di euro all’anno. A questo importo vanno accostate le detrazioni ai fini Irpef che interessano i lavoratori dipendenti e gli autonomi (37,8 miliardi di euro), le detrazioni per i familiari a carico (11,3 miliardi) e una serie di altre agevolazioni (aliquote Iva ridotte, Ace per le società di capitali, tassazione separata per alcune tipologie di reddito, imposte sostitutive sui redditi da capitale). A tutte queste vanno aggiunte anche le spese fiscali relative ai tributi locali.
“Si tratta di misure che – spiega l’associazione veneta – assicurano una riduzione del prelievo su Irap, Tari, Imu, Tasi e Tosap (tassa per l’occupazione di spazi ed aree pubbliche). Complessivamente lo sgravio riferito alle tasse locali ammonta a 38,7 miliardi di euro all’anno. Per il coordinatore dell’Ufficio studi Cgia, Paolo Zabeo, “questo tesoretto, costituito in linea generale da oltre 142 miliardi, è finito nel mirino delle promesse elettorali presentate in questi giorni dai big della politica nazionale”. E nella lista delle promesse ci sono pure gli accessi alle pensioni. Peccato che potranno “essere in gran parte realizzate attraverso una sforbiciata a queste agevolazioni che, quasi sicuramente, andranno però a penalizzare chi oggi beneficia di queste misure”.
A questo proposito, vale la pena riportare la proposta del presidente nazionale delle Acli, Roberto Rossini, secondo il quale “si potrebbe pensare di consentire l’accesso alla pensione in una età libera opzionabile da ciascun lavoratore, a partire da un requisito anagrafico minimo, ragionevolmente tra i 63 e i 65 anni, e prevedendo un rendimento pensionistico crescente o decrescente a seconda dell’età di accesso alla pensione”.
In altre parole, il patrimonio contributivo accumulato dovrebbe essere restituito – spiegano le Acli – sotto forma di pensione in un range anagrafico libero opzionabile e ciò anche a prescindere da un requisito contributivo minimo, oppure da un importo minimo pensionistico da dover raggiungere.
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