Austerità e riforme sono gli ingredienti della terapia decisa dalle istituzioni economiche europee e internazionali per ridurre i debiti sovrani.
Le rigide politiche finanziarie, in Italia, hanno significato: incremento della pressione fiscale, ferma al 43,3% del Pil, nel 2015 (meno 0,3 rispetto all’anno precedente), taglio ai servizi pubblici essenziali come denunciato dalla Corte dei conti, blocco di stipendi e salari, innalzamento dell’età pensionabile, riduzione dei livelli pensionistici, ed altre simili misure.
Gli effetti nefasti che ne sono conseguiti sono evidenti a tutti: contrazione della domanda aggregata e della crescita economica, e tassi di disoccupazione indegni di un Paese civile. Quello giovanile poi, intorno al 40%, nel 2015, è a dir poco vergognoso.
Se il pesante e progressivo peggioramento della qualità della vita avesse prodotto un qualche risultato, gli italiani lo avrebbero accettato e avrebbero guardato al futuro con più fiducia.
Haimè! Il debito pubblico è paradossalmente aumentato ed ha raggiunto la cifra di oltre 2 mila e cento miliardi di euro, nel 2015, pari al 132,6 % del Pil ( nel 2011 era il 116,4% del Pil).
In tal inquietante incertezza, le riforme, anche quelle più illuminate, perdono smalto e rischiano di naufragare. Si prenda la L.107/2015. I docenti in queste settimane sono alle prese con PTOF, alternanza scuola lavoro, carta elettronica, valorizzazione del merito, e ancora non hanno del tutto metabolizzato le novità delle linee guida del 2010. Mentre preparano le lezioni, correggono compiti sono distratti dall’arrivo, quasi giornaliero, degli avvisi di pagamento, collaudo, bollo auto, assicurazione, Tares, Tari. Ritornano, ostinati, a preparare verifiche, a monitorare Uda, ad aggiornarsi e sono, ancora una volta, sviati dall’apprensione di non riuscire a fare fronte alle scadenze delle bollette di energia elettrica, telefono, gas, acqua, rate del mutuo e/o affitto.
Appare un compito diabolico, ogni mese più improbo, far quadrare il bilancio familiare.
Per quanto ancora ci riusciranno?
Nel frattempo Draghi incalza i Leader europei sull’emergenza debito pubblico. Quello italiano, a parte la Grecia, è il più elevato in Europa, ed è uno dei più elevati al mondo.
Nell’attuale contesto economico internazionale non sembrano esserci vie d’uscita, l’Italia deve ridurre il suo debito, indipendentemente dalla sua permanenza nell’area Euro, perché la sua entità penalizza la crescita economica ( il Pil, nel 2015, è stato dello 0,8%, in crescita, ma meno di altri Paesi), impedisce il finanziamento delle infrastrutture di base e diffonde, a tutti i livelli, sfiducia e irrequietezza.
Si intende prescindere dagli insegnamenti keynesiani di aumento della spesa pubblica, che andrebbero, invece, considerati, a causa della radicale avversione ideologica di Usa e Germania. Pertanto l’impegno a contenere il debito necessita di scelte condivise da tutte le forze politiche e deve essere in linea con quanto enunciato da Adam Smith “ I sudditi di ogni Stato devono contribuire a mantenere il Governo in proporzione quanto più possibile alle loro rispettive capacità”. Si possono adottare varie strategie.
Una, è il consolidamento del debito pubblico, già sperimentata, in Italia, nel 1926 con il c.d. prestito Littorio, ma esistono altre formule tecniche, più consone ai tempi, per attuarlo. L’altra è l’imposta sui patrimoni medio alti. L’una e l’altra dovrebbero essere congegnate in modo tale da non nuocere agli investimenti; entrambe hanno dei costi che vanno attentamente valutati, anche in relazione ai costi delle misure alternative. Si pensi ai milioni di italiani che hanno subito la “patrimoniale” sulle pensioni.
Una strada meno impervia da percorrere, ma altrettanto dolorosa, è quella seguita dal Belgio che ha ridimensionato il suo debito con politiche di azzeramento degli sprechi, tutelando welfare e istruzione, e vendendo i gioielli di famiglia.
In Italia, dalla lotta agli sprechi, alla corruzione, ai privilegi e ai bizantinismi burocratici, dovrebbero arrivare cospicui risparmi, salvaguardando istruzione, sanità ed enti locali. Una nuova spending review che punti sull’orgoglio italiano, sull’etica, sulla rivoluzione delle coscienze. Dalla vendita del patrimonio pubblico ( Stato, regioni e enti locali), si possono ricavare 140 – 160 miliardi di euro, e altri 130 – 150 miliardi potrebbero venire dalle dismissioni delle partecipazioni pubbliche. A ciò si devono sommare gli effetti della politica di risanamento del Governo Renzi e gli incrementi progressivi del prelievo fiscale, già registrati nel 2015.
L’operazione può abbattere il debito pubblico e convincere i mercati e le istituzioni internazionali della determinazione dell’Italia nel cambiamento di strategia e infondere fiducia alle imprese e famiglie italiane.
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