A quanto pare, la campagna di reclutamento dei tutor e degli orientatori è stata un successo: già il 3 gennaio scorso erano stati arruolati quasi tutti i docenti previsti per queste funzioni. Il loro sarà un incarico molto pesante, la cui retribuzione sarà — secondo i calcoli della UIL — di circa sei o sette euro l’ora netti, per seguire un numero di studenti molto alto: paga assolutamente inappropriata. Tuttavia non è solo questo il motivo per cui il provvedimento è criticato dall’opposizione (ed anche da moltissimi docenti).
Non sono chiare le basi pedagogiche su cui è fondato l’insieme delle riforme governative della Scuola, a cominciare dal “Piano Scuola 4.0”. Il 60% dei denari elargiti sono obbligatoriamente da spendere in strumenti digitali: i quali, tuttavia, diverranno vecchi in tre o quattro anni, e dovranno essere sostituiti da nuovi. Per gli ambienti di apprendimento si potrà spendere solo il 20% dei fondi (in un Paese in cui solo due scuole su cinque hanno meno di mezzo secolo, e ben 1.500 superano i 100 anni). I conti difficilmente quadrano con la realtà, ed altrettanto difficilmente i progetti presentati nella scorsa estate troveranno realizzazione fedele.
La Scuola italiana rischia di ridursi al ruolo di nuovo redditizio mercato per il commercio di hardware e software: con beneficio sicuro soltanto per le multinazionali del settore. Bisogna pertanto chiedersi se di ciò la Scuola italiana avesse reale e urgente bisogno. Non sono forse più improrogabili gli investimenti sull’edilizia strutturale?
Solo un euro investito su dieci, invece, sarà alla fine effettivamente destinato a interventi edilizi (e solo a quelli piccoli, destinati ad adeguare gli ambienti da rendere “innovativi”). Il nostro — ricordiamolo — è un Paese le cui scuole in maggioranza non sono norma di sicurezza (in una parola, sono pericolose).
Indilazionabile è poi la riduzione del numero di alunni per classe, della quale non si parla nemmeno, pur essendo il fondamento di qualsiasi ambiente di apprendimento efficace.
Di adeguare la retribuzione dei lavoratori della Scuola italiana al costo della vita, alla funzione svolta, alle responsabilità che essa comporta e agli standard europei, come sempre non si discute neanche, e gli stipendi dei docenti e degli ATA restano — vergognosamente — al palo, tra gli ultimi d’Europa, mentre crescono le incombenze burocratiche e lo stress correlato al lavoro svolto.
Può il dissenso dei docenti esprimersi nei Collegi? Può farlo in maniera fattiva ed efficace? Certamente: ma la presa di posizione dei docenti deve essere realistica e poggiare i piedi per terra, evitando tanto l’appiattimento su posizioni di pedissequa e supina obbedienza (non consona a docenti degni di questo nome), quanto la negazione pura e semplice della realtà. Se il governo nazionale avvia un processo d’indirizzo della Scuola, il semplice chiamarsene fuori del tutto rappresenterebbe una posizione di retroguardia, un chiuder gli occhi per non vedere ciò che non piace; e significherebbe autoescludersi dalla possibilità di raddrizzare le decisioni didattiche e formative della propria scuola. Anche perché tutto l’impianto di riforma intanto va avanti — i numeri ci sono tanto in Parlamento quanto nelle scuole — e sarebbe autolesionistico privarsi della possibilità di limitarne i danni nella propria istituzione scolastica: quanto limitata questa possibilità possa essere, lo si vedrà dai dati disponibili, proprio se si cercherà di controllarne l’applicazione.
Chi considera sbagliato tutto l’impianto, anziché esclusivamente ritirarsi in uno sdegnoso — quanto sterile ed autoreferenziale — rifiuto, deve impegnarsi nel concreto, ossia nella didattica quotidiana e nei gruppi di lavoro, per servirsi di ogni mezzo e spazio di manovra contemplato dalla riforma, onde tradurre in realtà una docenza che si allontani dall’ideologia sottesa alla riforma stessa. Un’ideologia che sembra tendere secondo alcuni — come desiderato dal Potere industriale, diceva Pier Paolo Pasolini — a trasformare la Scuola in luogo di creazione non del cittadino dotato di pensiero critico, ma del consumatore e del produttore esecutivo, incapace anche solo di immaginare la costruzione di una società migliore di questa.
Anche il portfolio orientativo dello studente, al di là delle intenzioni dichiarate, potrebbe produrre l’effetto di catalogare — e quindi intrappolare — inclinazioni e curiosità di menti adolescenziali, plasmabili e ricche di potenzialità multiformi, cui deve invece esser lasciata la più ampia e varia possibilità di sviluppo, nell’interesse di tutta la collettività (industria compresa). La creatività, infatti, è sempre stata la freccia decisiva all’arco dell’Italia, anche in virtù del suo immenso (e unico al mondo) patrimonio culturale, da sempre studiato e insegnato nelle sue scuole e nelle sue università.
Non sarebbe dunque giusto bollare come “collaborazionisti” quei colleghi che, proprio per volgere in positivo, con intelligenza, norme dagli effetti potenzialmente negativi, volessero inserirsi nel processo allo scopo di governarlo e di indirizzarlo nella direzione di una Scuola più democratica ed efficace, in linea coi dettami costituzionali del 1948.
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