Le Linee guida sulla scuola sono ormai prossime alla pubblicazione. In attesa del Consiglio dei ministri del 3 settembre, trapelano varie anticipazioni, dalla stabilizzazione dei precari al raddoppio delle ore di alternanza scuola-lavoro negli istituti tecnici, all’introduzione di nuovi insegnamenti. E ancora: potenziamento del metodo “Clil” e dei laboratori, nonché organico funzionale per reti di scuole. Ma, come sempre, pare che il Miur le risorse dovrà attingerle dai risparmi di spesa, in particolare dalle supplenze.
Vedremo se il 3 settembre Renzi saprà stupire con i promessi effetti speciali. Di certo il mondo della scuola è ormai talmente assuefatto agli annunci reboanti di riforme epocali che attende con scetticismo. Leggendo le anticipazioni, si può dire tuttavia che sarà un esercizio retorico da super maestro della comunicazione quello di vendere come novità stupefacenti proposte che girano da decenni.
Un breve excursus. Mettere in ruolo 100mila precari? Correva l’anno 2007, quando l’allora ministro Fioroni annunciava che sarebbero stati assunti e “smaltiti” in cinque anni 150mila precari ed eliminato il precariato. Fine delle estenuanti graduatorie ad esaurimento. Nel Quaderno bianco si parlava pure con convinzione di rinnovamento del corpo docente, dell’introduzione di meccanismi di carriera, di valutazione per le scuole.
Prodi e Fioroni non rivinsero le elezioni, e dopo sette anni le graduatorie ad esaurimento restano inesauribili. Subentrò la Gelmini e l’Istruzione cominciò a fornire al Mef i risparmi richiesti. “Serviranno in parte per premiare il merito”, rassicurava la Gelmini avviando i progetti sperimentali di meritocrazia, per far intendere all’opinione pubblica che faceva sul serio. Correva l’anno 2008, e la ministra scriveva di suo pugno sulla lavagnetta di Porta e Porta che i docenti meritevoli avrebbero guadagnato 7mila euro in più all’anno. Un surplus di stipendio destinato ad un 40% di insegnanti, annunciava allora la Gelmini, poi ridotti ad un 25-30% dal suo collega Brunetta. Più o meno la stessa esigua percentuale del 20% sarebbe stata premiata nel lontano 2000 dal ministro Berlinguer col fallito concorsone a quiz. Nessuno dei due rivinse le elezioni. E nessun aumento di stipendio ai prof, in barba al merito.
Matteo Renzi le elezioni (quelle che contano) deve ancora provare a vincerle. La posta in gioco è alta. Un milione di elettori e relative famiglie sono sempre stati un serbatoio di voti con i quali le elezioni o si vincono o si perdono. Bersani, da ultimo, ne sa qualcosa. Non ha vinto per non essere stato chiaro e convincente proprio sulla scuola.
Renzi finora ha promesso molto e sa che deve passare dalle parole ai fatti. Ma fra il dire e il fare c’è di mezzo Padoan. Come tutti i ministri dell’Economia che lo hanno preceduto, è lì per mettere i paletti e stoppare le idee troppo ardite. Quando la ministra Madia annunciò che la riforma della P.A. doveva passare attraverso il turn over e la staffetta generazionale, Padoan chiuse lapidario “Le pensioni non si toccano”. C’è la spending review. Niente da fare neppure per i “soli” 4mila professori di quota 96.
Il grande rilancio dell’istruzione bolle in pentola da anni: assunzione in massa di precari, organico funzionale, merito e carriera. Mentre Renzi e Giannini facevano trapelare già in agosto qualche barlume di innovazione più o meno stupefacente, di nuovo Padoan raggelò gli animi. “Risparmieremo su tutto” disse tombale. A scuola ormai lo hanno capito tutti.
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