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Rilevazioni OCSE-PISA, Corsini (Università Roma Tre): “Sono utili, ma non misurano le competenze” [INTERVISTA]

Sui risultati delle rilevazioni OCSE-PISA parliamo con Cristiano Corsini, docente di pedagogia sperimentale alla Università di Roma Tre.

Allora, siamo alle solite.
Abbiamo visto nei giorni scorsi gli esiti delle rilevazioni OCSE-PISA che evidenziano un deficit di competenze dei nostri studenti. Cosa ne pensa?

Penso che innanzitutto sarebbe opportuno leggere le indagini in maniera più accurata, prestando attenzione alla metodologia e agli strumenti impiegati. Se lo facessimo, scopriremmo che l’OCSE-PISA, a dispetto di quanto affermato, non misura competenze.

Ci spieghi meglio

E’ presto detto: essendo strumenti standardizzati, cognitivi e “a un colpo solo”, le prove PISA non presentano alcuni elementi essenziali affinché si possa parlare di competenze.
Le competenze hanno dimensioni cognitive, attive, metacognitive, sociali, emotive, dinamiche, contestualizzate: per questo motivo non esiste una sola prova di competenza, ma è necessario ricorrere a diverse rilevazioni (diverse nel tempo e di diversa natura). Ovviamente, la stessa critica si applica alle prove INVALSI.

E quindi cosa misurano?

Nella sua prima edizione (2000) PISA si presenta come indagine sulle abilità, sulla literacy, sulla numeracy. È solo dopo che in ambito europeo viene ufficializzata la necessità di rilevare informazioni sulle “competenze” (2002) che l’OCSE, forte di un mandato comunitario, pur mantenendo gli stessi strumenti sceglie di presentare PISA come strumento in grado di misurare le competenze. Se diamo un’occhiata ai rapporti del 2000 e del 2003 possiamo riscontrare come le differenze lessicali stridano rispetto all’invarianza di strumenti e contenuti.
Il fatto che queste prove non misurino competenze non significa che non siano utili. Significa che dovremmo smetterla di definire “competenza” quanto misurato da PISA o dall’INVALSI. Altrimenti, oltre a ottenere misure non valide, rischiamo di continuare a concepire la didattica per competenze come una roba preconfezionata e standardizzata.

Resta il fatto che, qualunque cosa misurino, si tratta di rilevazioni che un certo interesse sembrano comunque averlo. O no?

 Certamente: PISA, esattamente come le prime indagini IEA di mezzo secolo fa, restituisce informazioni preziose sull’iniquità del nostro paese. Divari territoriali, segregazione scolastica nella secondaria, gender gap, incidenza dello stato socioeconomico sul rendimento sono dinamiche che conosciamo da decenni.
I toni apocalittici però non aiutano, anche perché danno l’impressione di un inesorabile peggioramento – che nei fatti non c’è – e nascondono quanto di positivo il sistema scolastico è riuscito a fare in questi decenni.

Per esempio? 

Stando ai dati, la scolarizzazione di massa non ha abbassato il livello di qualità della preparazione di studentesse e studenti. Il fatto che le vecchie generazioni rilevino un tracollo anche se non c’è non è una novità: abbiamo testimonianze di questa distorsione percettiva risalenti a migliaia di anni fa. Vecchi individui liquidano come cacofonici i suoni emessi da individui più giovani, ma nel frattempo l’umanità va avanti e la musica pure. Personalmente, ritengo che nulla di quanto osservato negli ultimi trent’anni sia all’altezza di Colombo, Seinfeld e dei Monty Python. Tuttavia, questa opinione dice molte cose sui limiti del mio orizzonte visivo e non dice nulla su quanto realizzato dagli anni Novanta a oggi. Secondo indagini come OCSE-PIAAC l’Italia è uno dei paesi in cui la differenza di preparazione è maggiormente a vantaggio delle generazioni più giovani rispetto a quelle più anziane. Ignorare la portata di questi processi è una scelta molto ottusa.

Quello che dice è certamente interessante, resta però il fatto che il nostro sistema di istruzione presenta ancora molti limiti

I problemi ci sono e vanno affrontati. Tuttavia, la generalizzata tendenza a esagerare la portata di problemi realmente esistenti si sposa con quella a disincentivare investimenti nell’azione di istituzioni statali – percepite come necessariamente inadeguate vista la crisi che perennemente paiono attraversare – e a favorire il finanziamento verso enti privati che a torto sono ritenuti più competenti.
I toni apocalittici invitano a preoccuparci per qualche giorno e impediscono di occuparci seriamente dei problemi reali. L’Italia non investe quanto dovrebbe sulle strutture scolastiche, sul potenziamento dell’organico, sulla remunerazione, sulla formazione iniziale e in servizio del corpo docente.

E quindi?

Dire che pensare di recuperare i mancati investimenti sparando dichiarazioni a vanvera in occasione dell’uscita dei rapporti di ricerca o è segno di incompetenza o di disonestà intellettuale.

Reginaldo Palermo

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