Il professore, si legge sul Sole 24 Ore, era stato condannato, nel 2003, per il reato previsto dall’articolo 609 quater del Codice penale, atti sessuali con minorenne con la concessione però della sospensione condizionale e della non menzione della pena. Una volta passata in giudicato la sentenza, l’amministrazione scolastica, con una nota dell’ottobre 2007, aveva disposto il licenziamento.
Di fronte all’impugnazione della misura da parte del professore, le pronunce di merito gli erano entrambe favorevoli, stabilendo l’illegittimità della decisione del Miur.
La risoluzione immediata del rapporto infatti, secondo i giudici di appello, non poteva avere a fondamento la condanna penale, visto che, quando erano stati commessi i fatti sanzionati, l’articolo 609 nonies del Codice penale (sulle pene accessorie e le altre conseguenze penali della commissione del reato) non prevedeva come conseguenza la misura accessoria dell’interdizione perpetua da ogni incarico nelle scuole di ogni ordine e grado, introdotta invece solo nel 2006 con la legge n. 38.
Inoltre, sottolineavano i giudici, la condanna per un reato anche grave, non poteva legittimare, da sola, la procedura di licenziamento, se non attraverso la preventiva apertura di un procedimento disciplinare che, nel caso esaminato, era invece stata assolutamente trascurata. In sovrappiù, si ricordava che la concessione della sospensione condizionale della pena si estende anche alle misure accessorie: così, neppure con la versione attuale dell’articolo 609 nonies del Codice penale, l’amministrazione scolastica sarebbe stata legittimata a intimare il licenziamento senza l’avvio del precedente procedimento disciplinare.
Ora, a chiudere il cerchio, riporta sempre Il Sole 24 Ore, la Cassazione conferma l’impianto del verdetto della Corte d’appello, malgrado il ricorso presentato dal Ministero che aveva messo in evidenza come il licenziamento fosse fondato anche su una valutazione della gravità dei fatti commessi nell’ambito dello svolgimento dell’attività di insegnamento.
Per la sentenza n. 8 della Sezione lavoro, depositata il 5 gennaio, però, a contare sono i vizi procedurali che rendono inapplicabile l’interdizione perpetua a fatti commessi a un’altezza di tempo nella quale questa era esclusa e l’assenza del necessario procedimento disciplinare.
Elementi questi ultimi sui quali, ricorda la Cassazione, da parte del Ministero non è arrivata nessuna censura specifica, rendendo quindi di fatto impossibile una nuova valutazione in sede di legittimità.
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