I lettori ci scrivono

Roma, una scuola elementare da incubo

Gentile redazione della Tecnica della Scuola,

Sono una mamma di un bambino di sei anni che l’anno scorso ha iniziato il suo percorso scolastico in una scuola primaria pubblica della Capitale.

Abbiamo iniziato con tanto ottimismo, nonostante le facce scure che notavamo quando raccontavamo ai vicini di casa che nostro figlio avrebbe frequentato la scuola pubblica di quartiere.

Ebbene, alla fine dell’anno scolastico, abbiamo compreso il perché di quei visi adombrati ed abbiamo chiesto il nulla osta in favore di una scuola privata.

Si parla tantissimo di scuola in questo periodo. Si fa riferimento al fatto che la scuola dovrebbe essere un luogo di ritrovo anche sociale, che dovrebbe fornire attività extra scolastiche di qualità, che dovrebbe essere aperta pure in estate, di promozioni e bocciature…

Ma la questione più importante, a mio avviso, viene affrontata raramente, ovvero i principi di selezione del corpo insegnante.

Gli insegnanti… sicuramente tutti altamente preparati, un po’ meno, invece, capaci di trasmettere il sapere, di fare amare la conoscenza. Perché se fai amare quella, il tuo compito è finito, hai fatto bene il tuo lavoro.

L’insegnante principale della classe, sin da subito, ha iniziato a preoccuparci.

Ha esordito dicendo che i bambini avrebbero dovuto leggere e scrivere nei tre caratteri entro dicembre/gennaio.

Tengo a precisare che la metà dei bambini fosse straniera e molti incapaci di esprimersi in Italiano.

Nessun riferimento al fatto che neanche un vivaista pretende tanto dalle piantine che coltiva. Sbocciare tutte nel medesimo momento.

Poi i compiti. I pomeriggi al parco, spensierati, a giocare, a immaginare, a muoversi, a fantasticare, erano praticamente finiti.

“Vi do l’ira di Dio di compiti”… così minacciava i bambini. Ed era vero.

Dovevamo suddividere in tre giorni i compiti per il lunedì mattina.

A sei anni. Incredibile. Immaginate l’odissea che dovevamo vivere noi genitori per fare stare seduti i figli ore interminabili, e finire la mole di lavoro.

Poi la questione note… note quotidiane, mortificanti.

Scritte in rosso, con mille punti esclamativi, pure sui libri. Note con obbligo di firma.

“Caio non ha terminato questo compito, deve rifarlo per domani”,” Sempronio oggi non vuole lavorare”, “Tizio si è addormentato sul tavolo”, “i compiti li fanno i genitori”, “non fate fare ai figli lavori che noi non assegniamo…”

E così anche il rapporto con i genitori andava degenerando.

Per non parlare delle questioni “strane” del tipo “fammi vedere su Google Maps il palazzo dove abitate”, “ma i tuoi genitori stanno insieme?”, “la mamma urla in casa?”, “lavatevi che fate puzza di aglio!” (agli stranieri), “sei venuto a pascolare?” al bimbo che aveva dimenticato quaderno e astuccio, “Che te piagni?” alla bimba che si era fatta la pipì in classe non essendo stata mandata in bagno.

Dulcis in fundo: ” vi consiglio di intraprendere un percorso psicologico di aiuto” ai bambini che a febbraio non riuscivano a leggere e a scrivere bene perché “tenderanno a peggiorare sempre di più.”

Mio figlio a maggio non è andato più a scuola.

Piangeva nel sonno, tremava e urlava la mattina, non scriveva più il suo nome, il suo cognome, la data. Era diventato aggressivo, di cattivo umore, sgarbato, anche con noi.

Terrorizzati, arrabbiati, stanchi, infelici di vedere nostro figlio perdere il sorriso, abbiamo fatto un passo indietro.

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