Capita spesso di sentire, in particolare discutendo con gli adolescenti, magari in tempi di scelta del percorso di istruzione superiore, che il latino non ha alcuna spendibilità pratica, che è una disciplina inutile ed inutile è lo studio di una lingua morta, che pochi si ostinano a cercare di riportare in vita.
Quando questo giudizio, che forse riecheggia il pensiero di molti adulti, giunge alle orecchie di chi ha una opinione contraria, la convinzione che il latino sia patrimonio comune d’Europa ed un inestimabile bene da salvaguardare per il futuro spinge ad intavolare una discussione con quanti esprimono un giudizio senza appello sulla lingua di Roma.
Le ragioni, forse, non sempre sono accolte con favore; difficilmente coloro che ascoltano la puntuale dimostrazione che il latino contribuisce a migliorare la capacità di argomentare e ragionare, amplia il lessico, forma la mente, cambiano opinione, ma, almeno, si accetta di discutere, perché la cosa più importante, in questo momento, è discutere, senza preconcetti e senza alzare le barricate, sul senso e la necessità di continuare a coltivare gli studi classici.
Allora pochissime considerazioni in merito e la speranza, grande, di suscitare un dibattito ed un serio scambio di opinioni. Sia concesso, in via preliminare, considerare il latino non una lingua morta, ma in agonia e, per così dire, in coma, ma non in una condizione di coma irreversibile.
Se così fosse, perché non “staccare la spina”? Perché continuare a somministrare farmaci salvavita? Forse perché tutti, nel loro intimo, ritengono che il latino sia indispensabile ad una formazione che, nel solco della tradizione ed in un’epoca di vertiginosi e repentini cambiamenti, deve ancora fondarsi sul patrimonio della classicità e permettere ai nani della cultura del multimedia di slanciarsi sulle spalle dei giganti di Atene e Roma. Nessuno, almeno fino ad oggi, ha proposto di “rottamare” la lingua dei nostri avi, limitandosi a ridurne l’orario di insegnamento, anche se si registrano proposte di percorsi formativi che non ne prevedono la presenza in indirizzi che offrivano, ed offrono, una completa ed invidiabile preparazione, che fa, a nostro giudizio, della flessibilità la sua migliore arma. Ma l’agonia del latino, il suo stato comatoso, sta producendo effetti ben più devastanti e generali.
Oggi a soffrire è la nostra lingua, l’italiano delle scritte d’amore sui muri delle città, sulle quali la richiesta di perdonare un innamorato si trasforma in un eloquente “Pedonami”, un amore senza apostrofi ed accenti che suscita un sorriso, ma fa riflettere sulla deriva sintattica, e logica, di chi scrive e parla. Oggi, però, non è infrequente leggere, anche nei testi prodotti dalla “classe colta”, errori e strafalcioni e forse anche in questa breve nota ne è presente almeno uno.
E’ lecito, o doveroso, chiedersi se esista una correlazione tra la scarsa considerazione di cui gode il latino e questa sofferenza, sempre più evidente, della lingua da noi quotidianamente usata. Bisogna correre al capezzale del latino per evitare che la malattia, che lo ha colpito, si diffonda e mieta altre vittime.
Quale sarà la prossima? Quante sono le lingue che sono potenzialmente contagiabili, considerata la presenza di termini derivati dal latino in molte lingue europee? E allora non risulta più conveniente, anche per non rischiare di perdere la propria identità e la propria storia, curare quella che per prima si è ammalata?
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