Solo un mese fa se ne volava in cielo.
Sammy Basso ci ha lasciato un solo messaggio, che la vita è un dono. Anche nella fragilità.
E tutti coloro che lo hanno incontrato hanno compreso che la sua fragilità era diventata la sua forza. Una grande contraddizione rispetto al nostro tempo.
Perché è attraverso il prendersi cura reciproco, senza quella paura della diversità e dell’altro che oggi vanno per la maggiore, che possiamo incamminarci verso una società più equa, più giusta, più fraterna.
Una bella testimonianza di vita, che ha riassunto nella sua lettera-testamento.
Esiste dunque sempre una cura, anche nelle relazioni.
La sua vita è un manuale su come affrontare non solo la sua fragilità, ma tutte le fragilità.
Difficile da comprendere, per noi, perché vincolati alla cultura dell’immagine, dei like, della perfezione fisica, incapaci di accettarci diversi, e di accettare altre esperienze lontane da noi.
Sammy è nato e cresciuto in una realtà, come la nostra, che soffre di un malessere non detto. Fatto, troppe volte, da rabbia e risentimento, in eterna competizione con certi stereotipi.
Eppure, avrebbe potuto recriminare col suo destino, ammesso che per ciascuno di noi ne esista uno già preconfezionato.
Sammy invece attraverso il dolore ha imparato a cogliere il bello e il buono. Lo dice il suo testamento, preparato anni fa per il suo funerale.
Tutti, credo, ci siamo sentiti coinvolti, presi, commossi dalla sua vita e dalla sua morte.
E, nel contempo, abbiamo letto quelle sue parole con un misto di atteggiamento: stupore a un lato, scetticismo dall’altro.
Perché non so quanti si siano chiesti, al suo funerale, se le sue parole potessero essere anche le nostre: la nostra vita sarebbe degna di essere vissuta anche se considerata, secondo i canoni dominanti, non sana, non perfetta, non piena di cose?
Il clima del nostro tempo ci sta dicendo, invece, che chi è malato terminale è quasi giusto che debba essere lasciato andare, che chi è anziano e fragile debba essere quasi abbandonato in strutture specializzate, separate dal nostro vissuto, in modo da non disturbare troppo. Del resto, non è vero che il nostro tempo ha di fatto emarginato il valore della morte e della sofferenza?
“Non si può vivere così”, ci ripetiamo spesso.
E invece si può, sembra dirci ancora Sammy. E l’ha fatto sino all’ultimo dei suoi 28 anni di vita.
Si può vivere così cercando la cura alla sua malattia, la progeria, come ha fatto col suo percorso di studi, ma riflettendo, prima ancora, sul dono della vita, di ogni vita.
Ecco dunque la risposta alle nostre inquietudini: una cura della vita c’è. Ad ognuno la responsabilità di trovare una risposta.
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