Aung San Suu Kyi potrebbe finalmente realizzare quella trasformazione democratica di Myanmar, per la quale ha fatto una quindicina d’anni di arresti domiciliari.
Alle elezioni di ieri, oltre l’80 per cento dei birmani s’è recato entusiasticamente alle urne e i risultati premiano la sua Lega nazionale per la democrazia.
La “Lady” aveva vinto le elezioni già nel 1990 e anche allora era agli arresti domiciliari. Con un quarto di secolo in più sulle spalle e il riconoscimento internazionale, dopo il premio Nobel per la pace, la figlia del fondatore della Birmania indipendente si troverà a dover formare un governo, probabilmente anche facendo compromessi con chi è sostenuto dai quei militari che hanno schiacciato per decenni le speranze di libertà del suo popolo.
Nei giorni scorsi “Amay” (“Madre”) Suu ha alternato dichiarazioni più morbide a prese di posizione più nette, come quando ha chiarito che sarà numero uno del governo, ma “sopra il presidente” a dispetto della norma costituzionale.
“Questa elezione è una grande chance di cambiamento per il nostro paese. Il genere di cambiamento che non arriva che una volta nella storia”, ha confidato la premio Nobel in un incontro a Yangon qualche giorno fa. E la “grande speranza di democrazia” è incarnata da lei, ha sottolineato Phil Robertson, rappresentante di Human Rights Watch. D’altronde, a dimostrarlo, è la folla che ha circondato festosa la sede del suo partito immediatamente dopo il voto.
Dopo l’uccisione del padre, il generale Aung San, assassinato quando lei aveva due anni nel 1947, la prima parte della sua vita s’è svolta in esilio. Prima in India, poi in Gran Bretagna. Ha studiato a Oxford, prendendo una laurea prestigiosa, e lì s’è sposata con un professore specialista di Tibet, Michael Aris, morto senza che potesse ricevere l’ultimo saluto dalla moglie nel 1999 per un cancro. Da Aris ha avuto due figli. La decisione di tornare in Birmania è solo del 1988. Volata al capezzale della madre, si ritrovò nel pieno di una rivolta contro la giunta militare repressa nel sangue.
“Non potevo, come figlia di mio padre, restare indifferente a tutto quello che stava accadendo”, ha detto durante il suo primo storico discorso alla pagoda Shwedagon, nel 1988. Dopo una prima apertura, con il permesso di costituire la Lega nazionale per la democrazia, il regime reagì mettendola agli arresti domiciliari.
Ciononostante, Aung San Suu Kyi riuscì a vincere le elezioni del 1990, ma la giunta militare non riconobbe i risultati. Iniziò così un periodo lungo di detenzione domiciliare, con l’assenza che contribuiva a renderla un mito ancor più della presenza. La premio Nobel (e premio Sakharov), dal canto suo, non si piegò e le rare visite di emissari autorizzate erano occasioni per rafforzare la sua figura. Bisognerà aspettare il 2010 per rivederla definitivamente libera. Nel 2012 fu eletta in un parlamento che, per un quarto, è nominato direttamente dei militari. Era ormai una Aung San Suu Kyi diversa. Capace di giocare la partita politica con maggiore pragmatismo. In questa cornice s’inquadrano alcune posizioni che hanno stupito i sostenitori occidentali della prima ora, come la “timidezza” sul tema delle sorti della minoranza musulmana Rohingya o la strana alleanza con Shwe Mann, ex presidente del partito filo-militari USDP, messo fuori in estate dalla formazione al potere. La prova del fuoco della Aung San Suu Kyi politica viene ora. L’icona dei diritti umani si troverà a dover confrontarsi con la quotidianità del governo, con la necessità di trattare anche con chi l’ha tenuta prigioniera lei e il suo paese per decenni.
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