I lettori ci scrivono

Sbriciolare il sapere e la scuola con le U.D.A.

L’ultimo grido in materia di innovazione didattica sono le U.D.A. (Unità Didattiche di Apprendimento). Terra d’origine di codesti mostriciattoli sono, manco a dirlo, gli Stati Uniti, donde provengono tutte le sperimentazioni, tutte le suggestioni, tutte le follie, che unitamente ad altre concause hanno ridotto la scuola italiana a quello che oggi è, cioè a un’istituzione che continua a funzionare solo perché la qualità umana e culturale degli insegnanti è tale da sopravvivere a ogni ostacolo.

E a questo punto, prima di affrontare il misterioso acronimo, poniamo una questione preliminare: ci chiediamo cioè perché mai una nazione come la nostra, che ha una tradizione culturale, pedagogica e didattica che origina almeno da Quintiliano e si dipana per secoli e secoli con un preciso filo conduttore fino agli anni settanta del ‘900, senta così forte il richiamo del pragmatismo pedagogico – didattico d’oltre oceano.

Non lo diciamo per un ridicolo sciovinismo, ma poniamo il problema oggettivamente e spassionatamente: ci chiediamo quale tipo di fascinazione possieda la pedagogia di origine deweyana per imporsi in quella che culturalmente non è certo una terra di nessuno. O, in modo complementare, perché mai il sistema scolastico italiano non raccolga la sfida dei nuovi tempi attingendo alla propria storia e alla propria tradizione culturale, che non esclude la dimensione pratico-operativa ma la accompagna alla riflessione e all’approfondimento dei contenuti.

In attesa che i pedagogisti e i didattologi ci diano cortese risposta, spieghiamo a braccio cosa si cela dietro il velame dell’acronimo. L’Unità Didattica di Apprendimento è in sostanza un argomento che viene affrontato dalla prospettiva di diverse discipline e nella cornice della “didattica per competenze”, cioè della risoluzione di problemi concreti.

Va da sé che questa prospettiva esclude la lezione “frontale” o “cattedratica” e prelude alla cosiddetta “scuola senza materie”, o quanto meno a una ridefinizione di queste ultime che ne renda impercettibili i confini.

È certamente auto-gratificante sentirsi un po’ filosofi, un po’ pedagogisti, un po’ innovatori della didattica. Illudersi di tracciare nuove strade, utilizzando a tale scopo il lessico anglosassone di cui abbondantemente infarcire le proprie esternazioni. In realtà muoversi in questa direzione significa soltanto privare docenti e alunni di sicuri punti di riferimento, annacquare i saperi, e lavorare per creare una immensa massa lavoratrice dequalificata, perfettamente adattabile al “mondo nuovo” huxleyano che si profila. L’esigenza di raccogliere le conoscenze in sistemi coerenti, dotati di propri ambiti di indagine e specifiche metodologie,  è insita nel sapere da quando esiste la scuola, ed è suscettibile di adattamento, non di rivoluzione: vale sempre, sul punto, l’espressione “distinguere per unire” dell’ epistemologo Maritain. Allo stesso modo non si può rinunciare al rapporto tra il discente e il docente, il quale ultimo non può ridursi, come vuole questa pedagogia modernista, a mero “facilitatore”, ma conserva nei confronti degli alunni un ruolo di direzione e di guida nell’ambito del settore di competenza, circa il quale possiede una preparazione certificata e riconosciuta.

Del resto, osservando con attenzione questa pietanza indigesta di nome U.D.A., non è difficile scoprirvi ingredienti tutt’altro che innovativi, piuttosto eterne esigenze culturali che ritornano mutato nomine.

Chi non ricorda quegli insegnanti che ci raccomandavano di “non ragionare per compartimenti stagni”? Non per questo, però, essi abbandonavano il sapere disciplinare. Suggestioni come quelle del docente mero facilitatore o addirittura della cosiddetta “classe capovolta” non sono altro, dal canto loro, che l’estremizzazione di un orientamento pedagogico vivo almeno da Froebel in avanti, e che trovava realizzazione fin dai Cinquanta del ‘900 nel “lavoro di gruppo”, operazione peraltro assai più umile perché non insignita di alcun acronimo e non sponsorizzata dall’INDIRE.

Riuscirà il Ministro Bussetti – uomo dotato  di buon senso, che conosce la scuola per esperienza vissuta e non attraverso gli slogan del pedagogese – ad arrestare questa tendenza, a trovare ad essa delle alternative? Non lo sappiamo. È un’impresa immane, perché uffici, carrozzoni, mentalità, remano in questa direzione. Ma rifletta che dalla sua parte avrebbe i docenti, che scendendo in trincea tutti i giorni sanno cosa serve davvero a far funzionare la scuola.

 

Alfonso Indelicato

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