Perché no allo schwa? Perché “quando si cambia qualcosa in una lingua ci si deve innanzitutto chiedere se quel cambiamento funziona per assolvere allo scopo che un sistema linguistico deve compiere, cioè la comunicazione”. Così la linguista Cecilia Robustelli, da anni referente dell’Accademia della Crusca su queste tematiche, in un’intervista all’Agenzia Dire.
Ma che cos’è la schwa? Ricordiamolo. La schwa è il simbolo della e capovolta che, come l’asterisco, vorrebbe assolvere al compito di rendere più inclusiva la lingua, laddove essa riuscisse a permettere a tutti gli individui (agli uomini, alle donne e a chi non si ritrova in nessuno dei due generi) di riconoscersi in una desinenza linguistica. Un’esigenza sempre più pressante, specie tra i ragazzi della cosiddetta generazione zeta (gli Zoomer, i nati tra la fine degli anni ’90 e la fine degli anni 2000), gli studenti delle nostre scuole, che chiedono più inclusività anche sul fronte linguistico, come si evince dalla vicenda della scuola Cavour di Torino, che usa l’asterisco nelle comunicazioni ufficiali, e sulla quale abbiamo già riferito.
“L’italiano si può rendere più inclusivo, ma le proposte per farlo devono rispettare le regole del sistema lingua, altrimenti la comunicazione non si realizza e la lingua non funziona”, continua la linguista, e spiega che quando si introduce un simbolo estraneo alla lingua in un testo, in sostituzione delle desinenze, “si eliminano gli accordi tra le parole e si mina l’intera coesione testuale: e questo è un fatto grave”.
La sua proposta: “piuttosto che affidare alla grammatica il compito di comunicare nuovi generi o la decisione di non accettarli, perché – suggerisce la professoressa – non intensificare la discussione sul loro significato e approfondire le ragioni che ne motivano la richiesta di riconoscimento sociale?”.
Peraltro – fa notare Cecilia Robustelli – l’introduzione di un simbolo al posto delle desinenze avrebbe anche la conseguenza di impedire il riconoscimento della presenza femminile nella società, quando è invece “fondamentale nella lingua italiana nominare donne e uomini con termini maschili e femminili e usare al femminile anche i termini che indicano ruoli istituzionali e professionali di genere femminile se sono riferiti a donne”.
Il riferimento è ai termini ministra, avvocata, direttrice di orchestra, ad esempio, il cui uso va sdoganato proprio nella sua declinazione al femminile, un’altra battaglia linguistico-culturale che vale assolutamente la pena di combattere.
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