Attualità

Sciopero scuola, è inutile? E allora perché i continui tentativi di disinnescarlo?

Come La Tecnica della Scuola ha già segnalato, da più parti si preme affinché docenti e lavoratori della Scuola siano obbligati dichiarare anticipatamente la propria intenzione di scioperare. Aran e Sindacati “maggiormente” rappresentativi lavorano per trovare un accordo in merito: accordo che spunterebbe ulteriormente l’arma nonviolenta dello sciopero.

A chiederlo, d’altronde, è parte non piccola dell’opinione pubblica. Lo ha fatto esplicitamente il grande giornalista Gian Antonio Stella il 18 novembre scorso dalle colonne del Corriere della Sera, sostenendo — tra l’altro — la tesi secondo cui l’obbligo di comunicare l’adesione allo sciopero non inficerebbe il diritto di sciopero stesso. Il che però è quasi come dichiarare che il diritto di sciopero non sarebbe danneggiato nemmeno dall’abolizione del divieto di sostituire gli scioperanti; e neanche dall’abolizione dell’obbligo per i datori di lavoro di avvertire i media dello sciopero; e neppure dal fatto che attualmente i media stessi, quand’anche avvisino i cittadini degli scioperi, lo fanno sempre senza spiegarne i motivi, ma sottolineandone solo i disagi per gli “utenti”.

Sciopero e stampa mainstream

Ma perché simili richieste provengono proprio da giornali importanti come lo storico quotidiano milanese? Sarà perché nel Consiglio di Amministrazione di RCS MediaGroup (proprietario del “Corrierone”) non figurano nomi di docenti, ma quelli dei migliori cervelli dell’aristocrazia finanziaria e industriale nostrana (solitamente non avvezzi a mostrarsi benevoli verso le rivendicazioni di chi sciopera, specialmente se fuori dal controllo dei Sindacati che “maggiormente” rappresentano i lavoratori)? Lasciamolo pensare a qualche maligno. Noi, più saggiamente, ci limiteremo a credere che ciò avvenga per amore degli Italiani tutti e del funzionamento delle patrie istituzioni scolastiche (ancorché trasformate in aziende).

Sciopero e docenti

Campagne mediatiche simili intanto ottengono comunque un effetto non da poco: la convinzione di molti insegnanti che lo sciopero non serva a nulla. Già oggi, infatti, moltissimi “leoni da tastiera” — forti coi social network e deboli coi Dirigenti — sono soliti proclamare coraggiosamente «Io sciopero se scioperano tutti». Supponiamo allora che davvero diventasse obbligatorio dichiarare la propria intenzione di scioperare: se pochissimi aderissero preventivamente per iscritto ad un prossimo sciopero, possiamo immaginare quanto coraggio gli eroi di cui sopra troverebbero per distinguersi dal gregge. E il gioco sarebbe fatto: un diritto di sciopero presente in Costituzione ma totalmente disinnescato. Nel totale assopimento delle coscienze.

Possibile che gli Italiani (e in particolare gli Italiani che insegnano, i quali, essendo tutti laureati, un po’ di memoria storica dovrebbero averla), abbiano totalmente dimenticato cosa significhi mettersi in gioco per difendere un diritto? Eppure gli Italiani di qualche tempo fa — in momenti storici ben peggiori — non erano affatto ridotti così.

«Ma lo sciopero è inutile»

In un precedente articolo abbiamo visto che nel marzo 1944, pur di reprimere gli scioperi che avevano messo in ginocchio la Repubblica di Salò, i nazifascisti erano pronti a deportare nei lager 70.000 lavoratori rei di sciopero.

Però non lo fecero! I Tedeschi ebbero paura. I lavoratori non avevano quasi mai indietreggiato di fronte agli sforzi profusi dai dirigenti sindacali e politici di Salò per indurli a riprendere il lavoro. Gli operai, insomma, si erano ovunque mostrati fermi, determinati, coraggiosi. Avevano dimostrato di non credere ai Sindacati di Stato, di saper riconoscere il nemico (malgrado le illusioni dei Repubblichini di poter “abbordare” i lavoratori mediante la carota della “socializzazione delle imprese”). Deportare 70.000 persone di botto, in una situazione simile, avrebbe potuto ottenere effetti opposti a quelli sperati, innescando negli Italiani non la rassegnazione e lo spavento, ma la rabbia e il desiderio di difendersi e di passare alla Resistenza armata, col risultato di rendere la situazione ingestibile per i nazifascisti. Sta di fatto che i deportati furono solo 1.200: nemmeno il 2% di quanto comandato dal tiranno di Berlino.

70.000, piuttosto, furono gli operai che successivamente passarono alla Resistenza. Il loro era stato uno sciopero di grande importanza politica, senza alcun aiuto dall’esterno, attuato attraverso enormi sacrifici e con gravissimo dispendio di energie fisiche e mentali, in una nazione occupata, rasa al suolo dai bombardamenti e sottoposta alle durissime leggi di guerra nazifasciste. Lo sciopero non portò all’insurrezione generale (quella che avrebbe poi liberato l’Italia dal 25 aprile 1945), ma fu comunque il più rilevante sciopero italiano dagli anni ‘20, e il maggiore e più efficace sciopero generale dell’Europa schiacciata sotto il tallone nazista. Grazie a quei lavoratori, grazie a quei padri dell’Italia di oggi, il nostro Paese iniziava con grande coraggio a riscattarsi da 22 anni di ignominia fascista, dalle sue leggi razziali, dai suoi delitti.

Contro l’intorpidimento delle coscienze

Le autorità nazifasciste facevano di tutto per indurre nella popolazione la convinzione che tutto andasse bene, che si potesse andare al cinema e a teatro senza pensare alla guerra, che si potesse accettare passivamente l’invasione tedesca e la ricomparsa delle minacciose squadracce nere. Anche contro questo addormentarsi delle coscienze lottarono partigiani e operai. Non era possibile accettare più oltre l’ignavia di quella parte (purtroppo maggioritaria) della popolazione italiana che aveva accettato passivamente 22 anni di dittatura ed una nuova guerra mondiale.

Scioperare: oggi diritto, ieri reato. Eppure scioperarono

Oggi lo sciopero è un diritto soggettivo, garantito dall’articolo 40 della Costituzione: un diritto mediante il quale i lavoratori tutelano se stessi. A quell’epoca era un reato penale, perseguibile ai sensi degli articoli 330-333 e 502 e seguenti del Codice Rocco, il codice penale fascista. La parola sciopero non vi veniva nemmeno menzionata, come possiamo vedere leggendo l’articolo 330, che lo definisce “Abbandono collettivo di pubblici uffici, impieghi, servizi o lavori”: «I pubblici ufficiali, gli incaricati di un pubblico servizio aventi la qualità di impiegati, i privati che esercitano servizi pubblici o di pubblica necessità, non organizzati in imprese, e i dipendenti da imprese di servizi pubblici o di pubblica necessità, i quali, in numero di tre o più, abbandonano collettivamente l’ufficio, l’impiego, il servizio o il lavoro, ovvero li prestano in modo da turbarne la continuità o la regolarità, sono puniti con la reclusione fino a due anni. I capi, promotori od organizzatori sono puniti con la reclusione da due a cinque anni. Le pene sono aumentate, se il fatto: 1) è commesso per fine politico; 2) ha determinato dimostrazioni, tumulti o sommosse popolari

Insomma, vietato scioperare. Eppure gli Italiani, nel momento più buio dell’occupazione nazifascista, scioperarono lo stesso, in massa, sfidando apertamente chi li opprimeva. E diedero il via alla Resistenza. «Historia (…) magistra vitae», direbbe Marco Tullio Cicerone (De Oratore II, 9).

Alvaro Belardinelli

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