Le dichiarazioni rese oggi alla stampa dal sottosegretario Reggi mettono sul tavolo alcune questioni di merito e una di metodo. Partiamo dalle prime, per segnalare i punti di interesse ma anche le perplessità e le preoccupazioni suscitate da ipotesi su cui ci auguriamo si apra un dibattito serio, come la delicatezza della materia esige e merita.
Ragionando su possibili azioni di riforma del sistema scolastico, infatti, non dovrebbe esserci posto né per la conservazione acritica dello status quo, né per la banalizzazione dei problemi, della cui complessità si deve sempre tener conto; non come alibi per non fare nulla, ma come premessa indispensabile di un cambiamento che punti al meglio, e non solo al nuovo.
Tempi di apertura delle scuole: può essere accattivante per le famiglie l’idea di una scuola aperta “undici mesi all’anno”, ma se la motivazione è quella di dare risposta alle esigenze di custodia dei figli, ci chiediamo se tocchi proprio alla scuola, e solo a essa, farsene carico. Dando infatti per scontato che nessuno pensi di tenere per undici mesi i ragazzi “incatenati ai banchi” (tant’è che un’ipotesi del genere sembra chiamare in causa quasi esclusivamente il primo ciclo), andrebbe ben distinto, in termini di qualità e quantità, il tempo scuola inteso nella sua specificità (come tempo dell’insegnamento e dell’apprendimento) rispetto a quello di una generica accudienza.
La questione ci riporta, necessariamente, a quella dei tempi della docenza, che va posta in termini molto espliciti e diretti: se il “retropensiero” è che gli insegnanti lavorino poco, e che le 18, 22, 25 ore di cattedra possano crescere senza problemi fino alla soglia delle 36 ore mediamente richieste a un dipendente pubblico, lo si dica apertamente, e di una simile affermazione ci si assuma fino in fondo la responsabilità. Dopo di che si vada a vedere che cosa avviene nel resto del mondo, per capire quale possa essere una soglia di riferimento su cui discutere davvero in modo serio, fuori da ogni superficialità e demagogia.
Per quanto ci riguarda, siamo prontissimi a confrontarci su come definire e riconoscere modalità di lavoro dei docenti in cui sia possibile prevedere carichi orari diversificati; in molti casi, peraltro, si tratterebbe soltanto di dare visibilità e riconoscimento formale a oneri di maggiore impegno già oggi sopportati da tanti insegnanti, ben oltre il solo orario di cattedra. Ma non si pensi di poter dilatare quest’ultimo a piacimento e a dismisura: chi lo ritiene possibile, evidentemente sa poco o nulla della scuola e di come ci si lavora.
Siamo comunque pronti a discutere di orari e retribuzioni: la sede naturale di questa discussione è il rinnovo del contratto, che da tempo stiamo chiedendo. Prendiamo atto che Reggi si dice pronto a confrontarsi con i sindacati: lui dice “nuovamente”, noi diciamo “finalmente”. Il governo apra il tavolo per un nuovo contratto, troverà in noi un interlocutore esigente, ma anche disponibile a misurarsi in modo aperto, senza arroccamenti. Chiediamo in cambio che si eviti con ogni cura di offrire pretesti per la banalizzazione di questioni complesse.
Tra queste, rientra sicuramente anche quella della durata dei percorsi scolastici, su cui va detto anzitutto che l’uscita dalla secondaria a 18 anni non è una “regola” europea, visto che in metà dei paesi (fra cui la tanto apprezzata Finlandia) gli studenti si diplomano a 19 anni. Ma soprattutto va detto che non sono pensabili né operazioni di semplice “taglio” di questa o quella annualità, né di spostamento in blocco dell’attuale sistema, facendolo scivolare, così com’è, indietro di un anno. Ogni segmento che lo compone risponde infatti a precisi requisiti, legati alle età cui si rivolge, agli stili di insegnamento e apprendimento ad esse consoni, ai traguardi di competenze che vi si possono conseguire. Senza contare gli inevitabili problemi legati alla gestione, il cui impatto non è mai trascurabile e che possono risultare determinanti per gli esiti di ogni processo di innovazione (si pensi all’onda anomala contro cui si infranse il progetto Berlinguer nel 2000).
Questione complessa, infine, è anche quella di metodo alla quale abbiamo accennato in apertura, riferita alla consultazione che Reggi si dice intenzionato ad avviare sui progetti di riforma, una volta conclusa la fase istruttoria dei “cantieri” operanti al MIUR. Ottimo annuncio, purchè si tratti di una consultazione vera e seria, non di una delle tante campagne di ascolto fasulle in cui si finge di dar voce al mondo mentre si fa fatica ad ascoltare persino sé stessi.
La scuola vive e prende volto dal milione di persone che ci lavorano, è attraverso il loro impegno che i progetti si trasformano in azioni e i risultati attesi, di miglioramento e di crescita, possono essere ottenuti. Non è sufficiente coinvolgerli nei progetti di innovazione, occorre farne i protagonisti, se si vuole che questi abbiano successo. E’ proprio la storia della scuola italiana e delle sue riforme a darne testimonianza e dimostrazione.
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