Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Giovanni Agnelli, e Stefano Molina, dirigente di ricerca presso la Fondazione Giovanni Agnelli di Torino, affrontano l’argomento delicato della didattica a distanza, arrivando a una conclusione importante: siccome i periodi di distacco dalla scuola dimostrano un calo degli apprendimenti proporzionale alla lunghezza della sosta, è meglio consolidare quanto finora si è fatto in presenza.
Se per un verso il normale svolgimento dell’anno scolastico rischia di essere seriamente compromesso, non tanto sul piano formale quanto sul versante sostanziale degli apprendimenti, per l’altro verso la risposta della scuola è stata immediata, cercando di trasferire online la didattica, attivando la modalità dell’apprendimento a distanza.
Anche il ministero ha allestito un “ambiente di lavoro” per aiutare le scuole.
Tuttavia, dicono i due esperti, dai primi monitoraggi ministeriali emerge che le scuole si stanno muovendo “in ordine sparso”, sfruttando sia le numerose piattaforme utilizzabili per la didattica a distanza (come Google Suite for Education, Microsoft Office 365 Education, Moodle, Edmodo o We-School), sia le funzionalità del registro elettronico. Si segnalano anche usi di Skype, Zoom, WhatsApp e altro: strumenti non pensati per finalità educative, ma facili da usare e dunque utili almeno per restare connessi. All’interno delle scuole, pure i singoli docenti si muovono in ordine sparso: ogni istituto dovrebbe avere un animatore digitale e un team per l’innovazione, in grado sulla carta di fornire una guida ai colleghi.
Tuttavia il passaggio all’online si scontra con i ritardi storici della nostra scuola, creando preoccupanti differenze fra gli studenti. In primo luogo, la disponibilità della connessione in banda larga, molto diversa fra una località e l’altra e fra una famiglia e l’altra.
Infatti, nel caso specifico, occorrono connessioni dirette fra docenti e studenti, che sfruttano le reti casalinghe. Inoltre, molte famiglie italiane con figli dispongono di una connessione in grado di utilizzare gli strumenti didattici, ma rimangono sacche di esclusione al Sud e fra i meno abbienti. Va poi detto che la preparazione professionale dei docenti alla didattica a distanza è in molti casi inadeguata.
Infatti secondo una recente indagine dell’Autorità delle comunicazioni, il 47 per cento dei docenti usa le tecnologie digitali quotidianamente, mentre il 27 settimanalmente.
Dalla stessa indagine emerge però che solo nell’8,6 per cento dei casi gli insegnanti le utilizzano per attività progettuali a distanza, con un uso abbastanza rudimentale della rete e dunque di poco aiuto nella gestione di una classe online per un periodo prolungato, specie nella scuola primaria. È evidente che in futuro la capacità di insegnare online dovrà diventare un requisito obbligatorio per tutti i docenti.
L’indagine Icils 2018 (International Computer and Information Literacy Study) dell’Iea (International Association for the Evaluation of Educational Achievement), che ha coinvolto 46 mila studenti di 14 diversi sistemi scolastici (Italia compresa), dimostra chiaramente che l’uso anche intensivo di strumenti digitali (tablet, smartphone e via dicendo) di per sé non garantisce lo sviluppo di competenze digitali sofisticate davvero utili per l’apprendimento.
Oggi la preoccupazione prevalente delle scuole e del ministero – si legge ancora si La Voce.info- sembra essere completare i programmi di studio per l’anno in corso. La letteratura suggerisce però che gli studenti corrono un rischio più subdolo: i lunghi periodi di distacco, come le vacanze estive, determinano infatti un calo degli apprendimenti proporzionale alla lunghezza della sosta. Se saranno costretti a fermarsi per molte settimane, gli studenti rischiano dunque di dimenticare gran parte di quanto appreso. Un obiettivo ragionevole, in primo luogo per gli insegnanti, nella fase di lontananza dalla scuola sarebbe dunque quello di consolidare quanto fatto fino a oggi.
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