In un saggio, scritto da Adolfo Scotto di Luzio e recensito da L’Internazionale, le domande principali sono: siamo davvero sicuri che l’acquisto di strumenti tecnologici per le scuole sia ciò di cui le scuole hanno bisogno? Siamo sicuri che l’impiego delle nuove tecnologie nella didattica migliori la preparazione degli studenti?
Nella incertezza di sicurezze che si vorrebbero avere , vediamo che i soldi spesi in tecnologia sono soldi che potrebbero essere spesi meglio, pagando di più gli insegnanti, e quindi rendendo più appetibile questa carriera, acquistando libri, restaurando gli edifici; vediamo che l’aggiornamento tecnologico si trasforma presto in una specie di capestro, perché ciò che era nuova tecnologia appena ieri è obsoleto oggi, e le cose si rompono, s’inceppano, si rubano, vanno sostituite con altre che altrettanto rapidamente si romperanno, s’incepperanno, saranno rubate; vediamo che adoperando il digitale l’apprendimento dei ragazzi non migliora, o migliora a volte sì e a volte no, in maniera non predittibile.
Quanto ai modi, è difficile difendere una scuola che, in 5-8 anni, non riesce a insegnare a chi la frequenta – per esempio – un inglese decente (forse, dopo l’apprendimento dell’italiano, la cosa più importante per i ragazzi che vanno a scuola oggi).
Se le “nuove tecnologie” possono darci una mano in questo senso, rivoluzioniamo pure (o aboliamo) l’ora d’inglese. Quanto agli obiettivi, può darsi che il semialfabetismo tecnologico sia oggi, per un ragazzo che esce dalla scuola, ancora più temibile, cioè più penalizzante sul mercato del lavoro, del semialfabetismo in discipline che noi siamo portati a considerare cruciali per la formazione, come l’italiano scritto e parlato, la matematica, la storia; può darsi che la competenza circa i mezzi sia ormai anche più importante della conoscenza delle cose (l’apocalittico che sonnecchia in me pensa che la situazione sia già più o meno questa; l’integrato suggerisce allora che tanto vale prenderne atto e cambiare qualcosa nella macchina dell’istruzione).
Se “nuove tecnologie” significa YouTube in classe attraverso la lavagna interattiva multimediale, benissimo: salvo il fatto che YouTube contiene tutto e il contrario di tutto, e che un docente inadeguato può fare un pessimo uso di YouTube come di tutto il resto, col che torniamo al problema iniziale, della necessaria, difficilissima mediazione umana (e qui comunque adagio: perché se YouTube sostituisce il libro di testo allora l’autorità sulla Commedia di Dante diventa Benigni, o Cacciari, non più Contini, e questo non va bene). Se “nuove tecnologie” significa qualcosa di meno vago, allora si vorrebbe sapere che cosa e come.
Un “esperto” suggeriva di proiettare in classe i video della Khan academy: proposta sensata se l’obiettivo è quello di perfezionare la preparazione di chi già sa; insensata se l’obiettivo è quello di avviare allo studio ragazzi che non sanno e, spesso, non vogliono sapere.
I bravi e i volenterosi (che in genere sono anche i privilegiati per censo) hanno già e sempre più avranno strumenti ad accesso aperto per migliorare se stessi; ma la scuola è fatta anche e soprattutto per gli altri, che sono la maggioranza.
Quali sono gli esempi su come adoperare le nuove tecnologie a scuola? Esempi praticabili nella scuola come è, non come se la sogna lo zelo dei riformatori (la scuola in cui l’aula computer è chiusa perché ci piove dentro, o il server non funziona, o la persona che “si occupa dei computer oggi non c’è”: perché è troppo facile riprogettare la realtà ignorando chi la abita).
Servirebbe un ministero che – magari con l’aiuto delle migliori aziende private del ramo – dica con esattezza e senso della realtà che cosa si può fare, dove investire, e in che modo farlo.
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