Ho letto con un certo stupore la missiva giunta alla Vs testata che lamenta in modo netto l’esclusione dei genitori dal processo decisionale che riguarda l’istruzione e la rottura del “patto” di collaborazione tra scuola e famiglia.
Mi pare in sostanza di cogliere una certa confusione tra il senso di “condivisione” del processo educativo e quello di “concorrenza” nel processo stesso. L’autore della lettera fa spesso riferimento ad una presunta resistenza corporativa degli insegnanti che si opporrebbe ad ogni tentativo di collaborazione con le famiglie. Ebbene, forse è necessario ricordare che il criterio di imparzialità e trasparenza è uno dei connotati fondanti di un’istruzione libera e obbligatoria.
Per garantire ciò, è imprescindibile innanzi tutto che chi opera professionalmente a scuola acceda al proprio ruolo in base a criteri oggettivi e in nessun modo dipendenti da presunti “indici di gradimento” dell’utenza. Se il concetto di “scuola democratica” – teorizzato e forse solo enunciato senza una verifica chiara dei risultati – deve riferirsi in buona parte alla possibilità di scelta del servizio di cui usufruire, vi è il rischio concreto di perdere ogni garanzia di trasparenza oltre che il doveroso riconoscimento reciproco dei propri ruoli sociali, oggi in profonda crisi.
Non dimentichiamo infatti che oggi sempre più spesso, ahimè, lo stesso “dialogo” con le famiglie è connotato da notevole conflittualità verbale quando non vera e propria aggressività. Per superare questo scoglio, non mi sembra certo sufficiente l’enfasi posta sull’operato del docente che dovrebbe semmai accompagnarsi con una seria riflessione sulle cause di queste dinamiche di conflitto, anche e soprattutto in ambito familiare.
Farei anche chiarezza sul significato di “professionista”, riferito al docente: questo termine non è sinonimo di “soggetto che esercita la libera professione” e svolge un lavoro autonomo. La prima conseguenza di ciò è che il principio della sua azione deve essere guidato innanzi tutto dalla stessa imparzialità ed equità con le quali devono essere selezionati gli insegnanti stessi, con parità di trattamento fra i candidati. Non si può al contempo denunciare un presunto processo di “aziendalizzazione” della scuola e poi invocare un comportamento “mercatista” del corpo docente che dovrebbe curarsi soprattutto dell’entità del proprio “portafoglio clienti”. Tutto ciò non andrebbe certo nella direzione di valorizzare la figura dell’insegnante, né accrescerebbe il prezioso contributo della componente familiare nel processo educativo. Direi che si tratta di un fraintendimento.
Mi auguro che le premesse per raggiungere la benaugurata e necessaria collaborazione tra scuola e famiglia possano presto fondarsi su presupposti più chiari e meno conflittuali.
Sofia Andreone
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