Si torna a parlare di formazione e ingresso nel mondo del lavoro. Stavolta a mettere carne sul fuoco è una ricerca condotta da Eures in collaborazione con il Consiglio nazionale dei giovani su “nuove professioni e nuove marginalità” diffusa da Il Sole 24 Ore che restituisce uno spaccato senza dubbio interessante sui percorsi dei giovani una volta terminati gli studi.
Secondo quanto emerge dallo studio, per molti giovani la formazione ricevuta a scuola o all’università non è servita più di tanto per trovare un impiego. Nel dettaglio si parla di poco più della metà dei ragazzi intervistati (50,7%), che affermano che la formazione scolastica o universitaria sono state “poco” o “per niente utili” per svolgere il loro attuale lavoro (75% tra i venditori/promoter e 65,1% tra i lavoratori non qualificati). Le cose cambiano, però, nel caso di lavoratori digitali e professioni qualificate: qui il titolo di studio è “decisivo”, rispettivamente, nel 63% e nel 64,4% dei casi.
Cosa risulta più utile per entrare nel mondo del lavoro? L’esperienza diretta sul campo (53,3%), poi la formazione universitaria (37,6% delle citazioni, che salgono al 61,7% tra i giovani lavoratori qualificati del terziario), l’autoformazione (23,8%) e i corsi di formazione privati (17,6%, che sale al 34,7% tra i lavoratori digitali).
Positive anche le esperienze di stage o tirocinio (10%), che prevalgono sulla formazione scolastica (6,7%). Per il 23,3% dei lavoratori non qualificati nessuno dei canali formativi seguiti è stato utile.
Insomma, la formazione, se specifica e ristretta ad un determinato ambito, come d’altronde quella che gli ITS sono chiamati a fornire, sembra dare i suoi frutti. Questo se si adotta una visione “utilitaristica” della scuola. Quest’ultima deve “servire” a qualcosa? Ha l’obbligo di accelerare i tempi di ingresso nel mondo del lavoro? O deve formare innanzitutto la persona?
Di recente diverse forze politiche si sono confrontate su questo tema, da Carlo Calenda che propone di far frequentare tutti i ragazzi innanzitutto il liceo, a Silvio Berlusconi che invece pensa ridurre gli anni di scuola per permettere ai giovani di trovare lavoro in anticipo.
La ricerca ha investigato anche sulle aspirazioni dei giovani: la libera professione e il lavoro in proprio è indicata come la “dimensione” più idonea a soddisfare le prospettive di vita personale e professionale dei giovani (42,8% delle citazioni), segue lavoro dipendente in una grande impresa privata (23,5%), o in una Pubblica Amministrazione (16,4%) o in una piccola impresa (6,2%). L’11,1% ritiene di potersi realizzare con un’attività imprenditoriale o auto imprenditoriale. Soprattutto gli under25 considerano più funzionale alla propria realizzazione un futuro da liberi professionisti (50%), mentre tra i “30-35enni” prevale la “richiesta” di un lavoro subordinato (53,5%).
Ma quanto impiegano a trovare lavoro i ragazzi dopo la fine degli studi? Secondo l’indagine di Eures in media 7 mesi. Il 67,6% dei giovani intervistati ha trovato lavoro entro 6 mesi dalla conclusione degli studi (il 31,3% in meno di un mese), mentre il 10,4% ha impiegato oltre 2 anni, e l’8,8% da 1 a 2 anni.
I laureati impiegano mediamente 6,4 mesi per entrare nel mercato del lavoro, i diplomati o con una scolarità inferiore quasi il doppio (11 mesi). Prevalgono (42,6%) contratti a termine o precari (a tempo determinato, collaborazioni occasionali, lavoro intermittenti, in somministrazione o stagionali), a fronte del 31,9% di contratti “stabili”. Il 18,6% ha un contratto di lavoro autonomo, il 7% indica “altre” forme contrattuali quali il lavoro nero (3,5%), il praticantato o il servizio civile universale.
Anche in questo caso una nota negativa riguarda le professioni non qualificate, dove si registra il tasso di precariato più alto (80,4%).
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