I lettori ci scrivono

Scuola, fra nozioni e valori

Alessandro d’Avenia, siciliano, professore di Latino e Greco in un Liceo di Milano ed autore del libro “L’arte di essere fragili. Come Leopardi può salvarti la vita”, (Mondadori), in un’intervista, a proposito della scuola, ha dichiarato: “Tut­ta la didattica è ba­sa­ta sul­la correzione di ciò che gli alun­ni sba­glia­no, non si fa un lavo­ro in posi­ti­vo su ciò che gli alun­ni fan­no bene, che li ren­de consapevoli del­la propria uni­ci­tà”.

Non vorrei essere frainteso. Io non sono per lo svuotamento del sapere, l’allineamento in basso dei rendimenti, il buonismo dolciastro e complice che toglie vigore alle motivazioni di apprendimento dei ragazzi.

Ad esempio, sono contro chi predica – irresponsabilmente – l’abolizione dei momenti domestici di assimilazione e rielaborazione del sapere, anche se il peso del lavoro personale va graduato – con saggezza ed umanità – secondo l’età dei ragazzi, il tipo di studio e le situazioni.

Ma il messaggio di fondo che, nelle parole di Alessandro D’Avenia, deve essere accolto è questo: la formazione scolastica è molto più della trasmissione di conoscenze e capacità.

L’educazione consiste soprattutto nell’insegnare a ragionare, ad argomentare, a valutare le cose (pensare), attraverso degli specifici dati conoscitivi (sapere).

Consiste non solo nel trasmettere nozioni ma nel coraggio di suscitare domande sul senso delle cose. Perché “i pensieri, se pensati, conducono alla salute della mente. Se non pensati, danno inizio al disturbo” (Wilfred Bion, psicanalista).

Consiste nell’apprendere sia i concetti che i valori che sono alla base dei concetti. Il ragazzo, per poter rispettare gli altri – e non gettare i sassi dal cavalcavia -, deve sperimentare, nella relazione scolastica, che lui stesso, in primo luogo, è un valore.

Oggi, invece, è diffusa fra gli educatori (genitori e insegnanti) la sfiducia sulla stessa possibilità di educare. Il motivo è evidente. Non esiste più un patrimonio di valori degni di essere tramandati e per i quali vale la pena di faticare e combattere.

Nella relazione didattica, vanno usati due tipi di sguardo. Lo sguardo della “sensibilità educativa” che deve essere sempre valorizzante, proteso a cogliere l’unicità irripetibile di ogni persona che ci è affidata, – e quindi, più le potenzialità che i limiti – e lo sguardo della “sensibilità professionale”, basata, per sua natura, sulla triade “programmazione – esposizione – verifica”.

Tuttavia, la relazione fra insegnanti ed alunni non è sospesa nella nuvola di un rapporto fine a se stesso, ma passa attraverso i contenuti specifici delle varie discipline. E deve puntare sia al “sapere” che al “pensare”.

Il sapere costituisce le gambe, il pensare rappresenta il camminare. Non serve a nulla avere le gambe senza usarle, cioè possedere delle conoscenze senza la capacità di applicarle e di spenderle nella vita concreta. Ma non è possibile nemmeno pensare senza delle conoscenze di riferimento o un lessico adeguato come strumento. In questo caso, c’è il camminare senza le gambe.

Mettere insieme lo sguardo educativo (la valorizzazione umana dello studente) e lo sguardo professionale (la crescita cognitiva, logica, critica, etica, sociale dello stesso), documentata attraverso una tassonomia proporzionale che educa maestri e ragazzi alla giustizia distributiva, richiede tempo, sensibilità e maturazione progressiva, innanzitutto da parte dell’insegnante.

Ammettiamolo. Così intesa, la professione docente è ardua, faticosa, ma sublime, unica. E se ben fatta, è impagabile. Come tutte le realtà che coinvolgono, in profondità, l’umano. Richiede preparazione nei contenuti, ma anche nei metodi di comunicazione. E, soprattutto, la disponibilità dell’insegnante a crescere continuamente in umanità assieme agli alunni.

Ha scritto qualcuno che educare è compenetrazione di anime, incontro di due libertà.

E che, per l’educatore è valida la metafora dei due volti che si guardano e dialogano, riconoscendosi l’uno nell’umanità dell’altro.

Oppure, la metafora dello scultore che tira fuori l’immagine dal blocco di pietra, liberando qualcosa che è già presente ma fatica ad emergere.

di Luciano Verdone

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