L’idea di rendere obbligatorio l’ultimo anno della scuola dell’infanzia torna periodicamente alla ribalta.
Proprio in queste ore se ne parla di nuovo anche perchè la sperimentazione dei licei quadriennali sta riaprendo il tema più generale della riforma ordinamentale del nostro sistema scolastico.
In apparenza l’obbligo dell’ultimo anno di infanzia sembra ragionevole e anche facile da realizzare: già oggi, affermano i sostenitori del progetto, più del 95% dei bambini di 5 anni frequenta la scuola dell’infanzia e quindi l’operazione comporterà pocchissimi fondi aggiuntivi.
In realtà la questione è un po’ più complessa.
Intanto bisogna ricordare che ci sono oggi centinaia di migliaia di bambini che frequentano scuole dell’infanzia non statali. Per la precisione sono più di 150mila nelle scuole dell’infanzia pubbliche (comunali) e 480mila in quelle private (per lo più paritarie); i bambini di 5 anni che non frequentano una statale possono quindi essere stimati in non meno di 150-180mila unità. Un loro eventuale “trasferimento” in scuole statali (parliamo sempre dei bambini di 5 anni) corrisponderebbe a circa 8mila classi in più, senza considerare la necessità di aumentare le dotazioni strutturali (edifici, locali, ecc..).
Ma ci sono anche problemi pratici di non poco conto.
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Facciamo un solo esempio: in molti Comuni italiani funzionano ancora le cosiddette “monosezioni” cioè scuole dell’infanzia che accolgono bambini di tutte le età: dai 3 (alle volte anche e e mezzo) ai 5 anni; cosa succederà in queste scuole? i bambini di 5 anni continuerebbe a stare con tutti gli altri ma sarebbero “obbligati” a frequentare?
Nelle scuole con più sezioni si dovrebbero formare sezioni di bambini di 5 anni tenendoli quindi “separati” da tutti gli altri.
Insomma i problemi organizzativi non vanno sottovalutati.
Tralasciamo ovviamente tutte le questioni relative all’aumento dei costi sia diretti (stipendi in più da pagare) sia indiretti (investimenti per l’edilizia, e cosi via).
Il tema è certamente interessante e importante ma forse andrebbe affrontato con qualche dato in più e con una analisi meno sommaria e meno “emotiva”.
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