Come docente di scuola superiore desidero rispondere alla lettera della signora Roberta Messina, che nella sua missiva pubblicata nella vostra rubrica il 27 ottobre u.s. si è permessa di definire la scuola italiana “patetica e offensiva”, adducendo motivazioni in parte fuorvianti e distorte, in parte attinte da triti luoghi comuni.
Nessuno in questa sede desidera negare le magagne che da decenni affliggono la nostra scuola né sminuire le responsabilità che i governi della Seconda Repubblica, di qualunque orientamento politico essi siano stati e i rispettivi ministri dell’istruzione, compresa l’attuale ministra Fedeli, hanno avuto nell’abbassare la qualità del nostro sistema educativo e nel considerare sempre meno importante la didattica a tutto vantaggio di innumerevoli aspetti burocratici e puramente formali. Tuttavia, ci sembra doveroso correggere alcune affermazioni che pretendono di presentare l’istruzione italiana come qualcosa degna solo di un paese sottosviluppato e quella, invece, delle altre nazioni europee, “paesi votati a istruzione e cultura”, a partire da quella della Gran Bretagna, dove la signora Messina risiede, come un’eccellenza.
In primo luogo, la signora Messina accusa il sistema scolastico italiano di imporre agli studenti “una mole di compiti anacronistici, nessuna pratica e tanta memoria per imparare lingue morte”, con chiaro riferimento all’insegnamento del latino e del greco. È evidente che la signora non è affatto a conoscenza del dibattito che ormai da anni riguarda il valore formativo delle lingue classiche: a partire dal celebre processo al liceo classico tenutosi al Teatro Carignano di Torino nel 2014, dal quale tale corso di studi uscì assolto con formula piena, l’importanza educativa delle cosiddette lingue morte è ormai riconosciuta da studiosi e da intellettuali di altissimo livello e la didattica di tali discipline è considerata un patrimonio culturale unico del nostro paese.
La signora afferma il valore dell’inglese “per studiare il mondo la medicina le scienze il presente” (forse una virgola tra un termine e l’altro non ci starebbe stata male): nessuno mette in dubbio l’irrinunziabile necessità nel mondo di oggi di conoscere, e bene, la lingua inglese, ma sostenere che il latino e il greco siano inutili per la comprensione della realtà che ci circonda sotto ogni sua forma e per lo studio delle materie scientifiche, è una grande mistificazione, frutto di una trita retorica contemporanea, che vuole negare o dimenticare, per non si sa bene quale regione politica o ideologica, chi siamo e da dove veniamo. Come se poi l’insegnamento delle lingue classiche e dell’inglese fossero tra loro incompatibili!
La signora Messina sostiene inoltre che al termine degli studi liceali “pochi entrano nelle università estere”. Forse la signora dovrebbe documentarsi meglio in ambito statistico: è infatti noto da numerose ricerche tecniche che gli studenti italiani che decidono di frequentare gli studi universitari all’estero sono un numero elevato (solo in Gran Bretagna, dove, ripeto, la stessa signora vive, già nel 2015 essi sono aumentati del 20%) e riescono a terminare il proprio percorso con grande successo e soddisfazione. Non parliamo poi dei ricercatori universitari italiani, che non avendo trovato spazio nel nostro paese, senza dubbio per una scellerata politica che non incentiva affatto tale settore, risultano nei paesi esteri ai primi posti per capacità e conoscenze. Del resto, gli stessi studenti liceali italiani che decidono di frequentare un anno di scuola all’estero, si scontrano molto spesso con un livello ben più basso del nostro e concludono il loro soggiorno con votazioni molto alte.
La signora Messina, infine, si dichiara ”felice di vivere nella civile Gran Bretagna”: che il Regno Unito sia una nazione che fin dal XVIII secolo ha sviluppato uno spiccato senso civico ed un ammirabile progresso civile, non è questione da mettere in dubbio, soprattutto da parte del sottoscritto, che ha avuto la possibilità e la fortuna di soggiornare più volte e per lunghi periodi in tale paese. Tuttavia, non sembra opportuno individuare proprio nel sistema scolastico la punta di diamante della società britannica: in Gran Bretagna, infatti, l’istruzione di eccellenza è solo quella privata! Come già emerse in uno studio pubblicato su “Il Sole 24 Ore” nel 2015, nella scuola pubblica inglese “il livello è così basso che ogni anno si moltiplicano gli appelli e le campagne per la scolarizzazione: un bambino di 11 anni che esce dalla primaria pubblica ha lo stesso livello di preparazione di un bambino di 7/8 anni della privata. […]. Il gap aumenta con il passare dei gradi successivi dell’istruzione. In Gran Bretagna l’istruzione di qualità è un privilegio riservato a pochi e la scuola pubblica non riesce a tenere il passo”.
È indubbio che nella scuola italiana tante cose mancano: aule, soldi, insegnanti, lingue straniere, lavagne elettroniche, computer, spesso anche carta igienica. Tuttavia, è bene ricordare a chi si lamenta, basandosi spesso su banali luoghi comuni, senza un’adeguata documentazione, e sconfinando talvolta nell’offesa, che “nonostante tutte le sue imperfezioni e magagne, la nostra scuola pubblica è un bene unico che all’estero ci invidiano”. È dovere di chi lavora nel mondo della scuola, ma anche di chi ci governa, adoperarsi per migliorare ogni giorno l’insegnamento e offrire ai nostri ragazzi una preparazione sempre più adeguata alle sfide del mondo contemporaneo.
di Maurizio Ciappi