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Scuola paritaria, in dieci anni triplicate le elargizioni statali: nel 2023 ulteriori 50 milioni. E nella statale arrivano i prof imprenditori

“Mi piacerebbe che il ministero creasse un logo da mettere sui prodotti della scuola italiana, che ha straordinarie potenzialità: perché non immaginare delle incisioni fatte da voi col logo del ministero e diffuse? E’ un modo per finanziare la vostra scuola” Questa è la dichiarazione del ministro Giuseppe Valditara, in visita al Liceo Classico e Musicale Statale “Bartolomeo Zucchi” di Monza, laddove, egli dice, ha trovato “ragazzi impegnati responsabili, maturi” ed ha pensato “che questo modello” sia “l’antidoto più forte contro ogni forma di devianza, di bullismo e dispersione”.   

Ora, non facciamo come Gianna Fracassi, segretaria generale della FLC-CGIL, che di fronte alle enunciazioni di Valditara ha sinteticamente commentato: “È uno scherzo”.

Noi, invece, prendiamo sul serio il ministro e vediamo dove andiamo a parare. Quali sono “i prodotti della scuola italiana”? Di primo acchito avrei qualche esitazione a rispondere. Metto da parte le scuole primarie e le secondarie di primo grado: mica vorremo usare il logo ministeriale per vendere i “lavoretti” fatti dai ragazzini per la Festa della Mamma e del Papà? Dove li potremmo vendere, questi graziosi manufatti? La domenica, in un locale dell’oratorio o, più laicamente, su un banchetto per strada? Quindi, via le scuole basse e andiamo alle scuole “alte”.

Mi pare di aver frequentato un liceo classico in cui non si sfornava alcun “prodotto” – era millenni fa, e noi studenti (allora il maschile, per convenzione, comprendeva i due generi e nessuna femmina si sentiva per questo motivo defraudata della propria identità sessuale), ci interessavamo di parecchie cose, alcune delle quali del tutto al di fuori della nostra portata.   Seguivamo, più o meno consapevolmente, la massima di Machiavelli: se sai che il tuo arco non è abbastanza potente per raggiungere il bersaglio, mira più in alto di quanto sarebbe necessario – e così ci nutrivamo di poco digeribili ma indispensabili letture, che non producevano oggetti da vendere ma un forte desiderio di imparare e di capire meglio.

Avevamo comunque i piedi per terra – per esempio, ero direttamente coinvolta nell’accudimento di un macchinario per la rilevazione dell’inquinamento dell’aria che, allora come adesso, a Torino è irrespirabile. Azioni positive, messe in atto per arginare il problema da parte chi governa, da quel lontano passato ad ora: nessuna. Ma, in quel liceo classico, ho fatto esperienza una discreta esperienza scientifica. Tanto per dire che certe “metodologie didattiche” spacciate per “moderne” tanto moderne non sono.

   Tornando al logo, noi, tanto tempo fa, non l’avremmo potuto apporre su nulla, e non penso che nelle scuole liceali sia cambiato granché. Andiamo alle scuole che invece, da sempre, producono: i licei artistici, gli istituti professionali e tecnici. Ma quanto producono? Ho sentito favoleggiare delle mense degli alberghieri ma spero che il ministro non pensi di “metterci un logo” e trasformare la mensa scolastica in un ristorante aperto al pubblico pagante. Analogamente, ciò che viene prodotto nei tecnici e nei professionali ha valore didattico e non è sfornato in quantità tale da essere commerciabile. In ogni caso, non si può vendere immediatamente ciò che è stato autoprodotto nei laboratori: fosse pure una merendina per la prima colazione confezionata da volenterosi allievi del corso di pasticceria, non la si può certo mettere in commercio nuda e cruda, senza nulla che ne certifichi l’igienicità, la qualità degli ingredienti etc.

Alla scuola materna, per esempio, è vietato introdurre cibi domestici (la classica torta di compleanno per i compagnetti fatta in casa), giusto per dirne una. Ma alcune cose, ad esempio le “incisioni” di cui parla Valditara (mi chiedo come mai in un liceo classico musicale si facciano incisioni, ma questa è mia ignoranza) quelle sì, si potrebbero vendere. Immagino che, fregiate del logo del Ministero, andrebbero a ruba, facendo affluire molti denari nelle casse della fortunata scuola.

Chi emetterebbe, però, la ricevuta fiscale? A quale titolo? Una collega mi riferiva pochi giorni fa della disperazione di un DSGA che doveva pagare una prestazione occasionale ad uno straniero senza partita IVA  – caro Ministro, il commercio ha le sue leggi!

Ma lasciamo da parte le amenità e cerchiamo di capire qual sia il “movente” che spinge un tranquillo docente di Diritto romano (alias ministro del MIM) ad ipotizzare di timbrare con un logo i “prodotti”, ancorché incerti, della scuola italiana. La domanda è ingenua, il “movente” è chiaro: reperire ulteriori risorse finanziare, ché già i fondi del PNRR scarseggiano. I soldi, però, li dovrebbe mettere lo Stato; se proprio ne ha pochi, dovrebbe seguire il consiglio che, in Costituente, il grande critico letterario Walter Binni diede rispetto ai finanziamenti alla scuola privata: “… la scuola statale, se dovesse dividere il suo bilancio con esse, finirebbe per essere liquidata del tutto, a loro unico favore e non a favore della “libertà”.

Bene, Ministro, lo Stato cominci con il tenersi i soldi per la sua scuola o, almeno, riduca al minimo le elargizioni ai privati (e non si tiri in ballo la risibile “libertà di scelta” per le famiglie, né la fasulla “equiparazione). È una esortazione, destinata a cadere nel nulla, perchè sappiamo bene quanto Valditara sia vicino a “Comunione e liberazione”. Ma che almeno a noi resti la libertà di criticare, con gli alti argomenti di Binni (sui quali anche Valditara farebbe bene a meditare) l’enorme cifra che va alle cosiddette “paritarie”.

   Fuor di celia, negli ultimi dieci anni i fondi destinati dallo Stato alle scuole private sono triplicati, passando  da 286 milioni nel 2012 a  626 milioni nel 2022. Nella Finanziaria di quest’anno sono previsti altri 50 milioni di euro da destinare specificamente alle scuole paritarie dell’infanzia.

La domanda è d’obbligo: che ne è dell’articolo 33 della Costituzione, che garantisce a Enti e privati di istituire scuole, purché “senza oneri per lo Stato”?

   L’altro aspetto serio che emerge nell’idea del logo ministeriale per i “prodotti” delle scuole è la spinta a considerare il “fare”, l’attività pratica come momento superiore all’imparare. Valditara vuole varare la sua riforma dei tecnici e dei professionali, sostenendo che “il nostro sistema produttivo ha un bisogno disperato di questa riforma” e che è necessario “un potenziamento delle materie di base e dell’alternanza scuola lavoro”. Il sistema produttivo non è bloccato, in Italia, per mancanza di lavoratori adeguatamente formati.

Se così fosse, le nostre imprese potrebbero, in tempi brevi, formare, secondo le loro esigenze, i giovani diplomati o laureati, attraverso stage mirati a far acquisire loro conoscenze specifiche. Ma gli imprenditori, al solito, preferiscono pianger miseria, risparmiare e addebitare ad altri le responsabilità. Inoltre, i pochi posti di lavoro disponibili altamente qualificati vengono sdegnati dai giovani a causa dei bassi stipendi e delle mediocri condizioni di lavoro: penso che il Ministro conosca bene l’inquietante fenomeno della migrazione intellettuale italiana. Insomma, noi formiamo i nostri giovani e poi li cediamo al miglior offerente.

Non so se si possa essere più stupidi. Ancor più stupidi (o meglio, in malafede) lo si è quando si continua ad addebitare alla scuola l’alto tasso di disoccupazione giovanile. D’altra parte, i giochi ministeriali (iniziati ben prima dell’incarico di Valditara, questo bisogna dirlo) sono chiari: si vogliono favorire gli imprenditori in tutti i modi.

L’attuale Ministro sostiene, inoltre, che “con questa riforma “i manager e gli imprenditori potranno andare ad insegnare nelle scuole”. Bene, in che modo sono formati, manager e imprenditori, per fare i docenti? Cos’è l’insegnamento, un mestiere per tutte le stagioni? Chi li pagherà, questi docenti improvvisati? Ecco altre risorse che dovrebbero essere destinati alla Scuola (con la maiuscola) e andranno a rimpinguare privati. Una volta c’erano la formazione in azienda, a carico dell’imprenditore.

 Ora si preferisce trasferire questo onere allo Stato, in un momento in cui due fattori, l’accelerazione tecnologica e la concentrazione della ricchezza nelle mani di pochi, suggerirebbero di lasciare alle imprese il compito di formare il personale. Parallelamente, lo Stato, con la sua scuola, dovrebbe garantire la formazione di base. Come riuscirà a “rafforzarla” una riforma che, per la metà delle scuole superiori italiane, vorrebbe abbreviare di un anno il percorso scolastico è un mistero, un dogma indimostrabile. 

Giovanna Lo Presti

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