L’autonomia differenziata è Legge dello Stato italiano: la n. 86 del 26 giugno 2024. A giudicare dalla scarsa adesione dei lavoratori della Scuola alle manifestazioni di protesta e agli scioperi — indetti negli ultimi cinque anni da alcuni Sindacati di base per contrastarne l’approvazione — la cosa non sembra impensierire né insegnanti né personale ATA. Eppure dovrebbe. Vediamo perché.
Principi costituzionali a parte (questa legge, secondo giuristi insigni, ne viola diversi), il personale della Scuola non si è reso conto che è proprio il suo status giuridico risultarne minacciato; con le conseguenze (anche economiche) che ciò comporta. Se la legge andrà a regime, superando indenne anche l’eventuale referendum abrogativo, il Parlamento vedrà il proprio ruolo ridotto a poco più di zero, e non potrà — quand’anche lo volesse — difendere la Scuola dalle decisioni che la riguardano, perché tutto verrà deciso dal Governo e dalle Regioni.
I diritti costituzionali fondamentali (quelli della prima parte della Carta: salute e istruzione in primis), non saranno più garantiti, perché condizionati dalle risorse economiche della regione di appartenenza. Di conseguenza anche l’accesso dei figli alle scuole, lo stipendio del personale, i contratti. Infatti, lo Stato avrà meno risorse, perché le Regioni potranno gestire in proprio forti percentuali delle tasse italiane per finanziare competenze che finora spettavano all’Amministrazione centrale.
In quale proporzione? In base al costo dei servizi e ai bisogni della popolazione? Nossignori. In proporzione alla ricchezza delle regioni stesse. Quindi le Regioni ricche riceveranno più ricchezza, le povere meno. Aumenterà dunque il divario tra le Regioni, tra le loro scuole e i loro ospedali, tra i loro stipendi, i loro contratti di lavoro, il numero dei loro lavoratori.
Quanto tutti gli italiani hanno pagato (e che dunque agli italiani tutti appartiene) aumenterà il patrimonio pubblico solo di alcuni (quelli delle Regioni facoltose).
Moltissime competenze passeranno dai Ministeri alle Regioni. Tutto avverrà ad invarianza di bilancio: di conseguenza, alcune Regioni avranno la maggior parte delle risorse, e per le altre resteranno le briciole. Briciole anche per lo Stato stesso, che potrebbe trovarsi in difficoltà persino per finanziare in tutta Italia la diplomazia e le forze armate. Figuriamoci per sanità e istruzione.
In 163 anni il divario tra Nord e Sud d’Italia non è stato sanato. Anzi. Problema tipicamente italiano, che rappresenta la frattura più antica e profonda all’interno di uno Stato moderno in tutto il pianeta: uno dei primati negativi italiani di cui non vantarsi. Ebbene, questa legge rende il divario più forte, più intenso, definitivo.
Gli entusiasti dell’autonomia differenziata giurano che i servizi al cittadino saranno garantiti — più di prima! — dai LEP: i “Livelli Essenziali delle Prestazioni”, previsti dalla malavventurata riforma del Titolo V della Costituzione, varata nel 2001 dal secondo governo Amato (centrosinistra).
Il problema è che per 23 anni non è stato chiaro quali fossero i LEP; ci si è pensato solo ora, frettolosamente, fissandoli ai lacunosi livelli attuali. Non è chiaro neanche con quanti miliardi verrebbero finanziati: ne servirebbero almeno 100, che il governo Meloni vorrebbe prendere da quelli già assegnati alle Regioni meridionali. Il problema dunque è: con tutte queste incertezze, quanti decenni ci vorranno per far partire la macchina dei LEP e garantire i diritti di tutti gli italiani e le italiane?
Regioni più ricche, scuole migliori. Chi nasce in regioni povere avrà meno istruzione, condannandosi a una vita di serie B. Già ora troppe scuole del Sud sono senza tempo pieno, laboratori, mense. Al Sud si trova la maggioranza delle scuole fuori norma per sicurezza e igiene (che in Italia sono almeno l’80%): igiene e sicurezza sono già ora, guarda caso, competenza degli enti locali.
Persino le università meridionali rischiano il tracollo economico. Figuriamoci le scuole. Dove, peraltro, il “PCTO” si trasformerebbe definitivamente in addestramento al lavoro subordinato nelle aziende del territorio.
Ogni Regione potrà chiedere e ottenere che lo Stato indichi solo gli indirizzi generali sull’istruzione, facendo dimenticare la differenza tra decentramento federalista e localismo senza regole. Il personale della Scuola non sarà più statale, ma regionale. Significa gabbie salariali, ossia stipendi poveri nelle regioni povere, e vicini ai livelli attuali solo in quelle più ricche: nessuno s’illuda di avere “stipendi europei” nemmeno in Lombardia, Veneto e Piemonte, perché nulla è più lontano dai progetti dell’attuale classe politica — parole e proclami a parte — come gli ultimi 40 anni hanno già ampiamente dimostrato.
Nei CCNL degli Enti Locali non sono previsti “gradoni” di anzianità come per la Scuola nazionale attuale. Perciò, aspettiamoci pure l’annullamento dell’anzianità maturata per tutto il personale della Scuola regionalizzata. È già successo per i dipendenti degli Enti Locali divenuti ATA statali nel 2000, la cui pluridecennale anzianità fu annullata con un semplice colpo di spugna.
Ce n’è abbastanza per mobilitarsi, onde impedire tutto ciò? Cosa farebbero docenti e non docenti francesi (ma anche tedeschi, britannici, scandinavi, belgi, olandesi, spagnoli, portoghesi, greci, rumeni) se qualcuno tentasse nel loro Paese una consimile neoliberistica dissoluzione dello Stato e dei loro diritti?
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