In questi giorni imperversa, nelle diverse pagine FB, il dibattito “scuola pubblica/scuola privata”: si discute di soldi, di stipendi, di sovvenzioni, di serietà; temi interessanti, se trattati in modo intelligente e non polemico ma, di fatto, la discussione avviene esclusivamente su base ideologica e non su provate esperienze ed empiriche dimostrazioni.
Ne emerge una classe docente triste, aggressiva, pronta ad azzannarsi per un brandello di carne e mi chiedo se noi insegnanti, che dovremmo essere esempio di calma e ponderazione, che dovremmo confrontarci su ben altro in questo momento, siamo esseri umani o iene.
Io insegno nella scuola pubblica, ho due figlie nella scuola statale e il grande nella scuola privata.
Le motivazioni della mia scelta sono molteplici ma la principale è questa: il corso di studi intrapreso dal mio primogenito, lo scientifico europeo-che dà la possibilità di portare avanti due lingue e risparmiare un anno di studio- nella mia città è stato attivato, su progetto europeo, solo dalla scuola paritaria ed è un percorso duro che non fa sconti a nessuno: se sai, vai avanti ma se non sai, cambi strada.
La maggiore accusa mossa dagli insegnanti della scuola statale alle scuole paritarie è quella di essere dei diplomifici; chiedo ai colleghi di guardarsi dentro, prima di parlare in codesto modo, di ritornare agli anni del ministro (all’epoca si diceva ancora così) Gelmini in cui, per il terrore di perdere le classi, si è promossa un’intera generazione di asini. Chiedo ai colleghi di guardare quanto, noi della scuola pubblica, abbiamo abbassato i livelli dell’apprendimento in nome di una didattica inclusiva che ha escluso il diritto di formazione delle eccellenze perché noi docenti, scaraventati da un’emergenza all’altra e privati, secondo una discutibile logica economica, di personale ci siamo dovuti comportare da bagnini e non da professori: sempre a recuperare studenti che rischiavano di annegare ma gli altri?
Dobbiamo affermare, in modo onesto e disinteressato, che esistono scuole private che si comportano da diplomifici nella stessa maniera in cui esistono scuole pubbliche che hanno fama di diplomificio e, nello stesso modo, sappiamo che vi sono ottime scuole paritarie e ottime scuole pubbliche. Non possiamo dichiarare a priori che la scuola pubblica è una scuola di serie A mentre la scuola paritaria è una scuola di serie B perché, semplicemente, non è vero e perché sappiamo che alcuni docenti, nella scuola pubblica e quindi protetti dai sindacati, scaldano la cattedra senza insegnare alcunché.
La situazione delle scuole paritarie, la loro esclusione dai finanziamenti pubblici, non rappresenta una vittoria, è una Caporetto: le rette aumenteranno necessariamente e soltanto i figli della classe dirigente potranno frequentare questi istituti. Mi pare opportuno ricordare che in Francia (e non parliamo di uno Stato ecclesiastico) le rette delle scuole paritarie sono basse perché enti locali e Stato le sovvenzionano onde evitare che il diritto di scelta divenga un privilegio di scelta (evidentemente la Rivoluzione Francese ha chiarito la differenza tra i due termini).
Invece oggi si esulta, in modo sciocco e acritico, mentre alla nostra Scuola viene inferto un altro duro colpo: l’articolo 30 sancisce il diritto di scelta educativa da parte dei genitori anche se l’articolo 33 furbescamente recita “senza oneri per lo Stato”; questa condizione era stata corretta dalla Legge n.62 del 10 marzo del 2000 che, consentendo stanziamenti ad hoc, rendeva effettivamente possibile la scelta.
Siamo tornati indietro, si tratta di una vittoria?
Alessandra Giordano