Sono un ex-insegnante ormai in pensione, ma continuo a seguire la storia della nostra scuola italiana, visto che è stata la mia casa per tanti anni.
Oggi voglio parlare di una realtà scolastica forse poco conosciuta, ma che merita comunque attenzione: la scuola serale, quella che raccoglie più o meno tardivi “pentiti” dell’istruzione. Persone che poco o tanto tempo prima hanno abbandonato gli studi e poi, ormai adulti e inseriti nel mondo del lavoro, voglio rimettersi sui libri.
Anch’essa, così come la scuola diurna, presenta sfaccettature e aspetti eterogenei. Così, accanto a persone dotate per lo studio, che conseguono al serale quei risultati brillanti che per un motivo o per un altro non avevano conseguito quando studiavano da ragazzi, ci sono soggetti che non riuscivano alla scuola diurna e non riescono a quella serale perché non portati per lo studio.
La differenza la fa l’atteggiamento tenuto dai vari istituti scolastici nei confronti di questa seconda categoria di utenti: troppo spesso ho insegnato in scuole serali dove gli studenti dovevano passare a tutti i costi, dove si facevano fare e rifare e rifare le verifiche, rendendole ogni volta più facili, perché altrimenti si sarebbe sparsa la voce che la scuola era severa e bocciava, quindi avrebbe perso iscritti e gli insegnanti avrebbero perso il posto. Tale preoccupazione era – e forse ancora è – diffusa fra molti professionisti (avvocati, commercialisti) per cui la scuola rappresenta un arrotondamento degli introiti derivanti dalla loro occupazione principale, introiti magari non troppo entusiasmanti data la concorrenza fra professionisti.
E peraltro è una preoccupazione diffusa anche fra i docenti dei normali corsi diurni.
Queste esigenze e preoccupazioni, pur comprensibili da un punti di vista umano, minano però una componente scolastica che si va sempre più perdendo: la serietà. Ho visto così promuovere immeritatamente persone, che con il titolo di studio conseguito – ci metto la mano sul fuoco – non avranno ottenuto il benché minimo miglioramento nella loro condizione lavorativa.
Daniele Orla
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