Mentre il livello dei mari cresce, una marea di maleducazione sommerge l’ex Bel Paese. Ognuno può constatare il fenomeno e raccontare esperienze che lo confermino. Poche e lievi le differenze tra nord e sud, centri cittadini e periferie, metropoli e campagne. A voler scherzare, potremmo ipotizzare che il riscaldamento globale stia bollendo anche i cervelli. Ma c’è poco da scherzare, purtroppo.
Infiniti gli esempi della imperante malacreanza, che spaziano dal pittoresco al criminale. Basta salire in metropolitana o in autobus, in qualunque grande città italiana, per accorgersi che, quasi sempre, gli anziani stanno in piedi e i giovani (ragazzi e ragazze) comodamente adagiati. Spesso questi ultimi si fiondano veloci sui sedili, per soffiarli all’anziana signora ottuagenaria, che li guarda stupita ed incredula. Dopodiché ostentano indifferenza, parlando tra loro ad altissima voce tra colorite bestemmie e pornografiche parolacce; oppure s’immergono nella contemplazione del cellulare, la mente ottenebrata da “musiche” dal volume tanto alto da uscire dalle cuffie e infastidire gli altri passeggeri. Riescono a non guardare negli occhi nessuno intorno a loro, soprattutto se vittima del loro malgarbo: per loro le altre persone non esistono, quali invisibili ectoplasmi. Questi adolescenti, maschi e femmine, paiono non vedere affatto le persone intorno a sé. Si sdraiano sui sedili, vi appoggiano scarpe sporche, carte unte, amplificatori con “musiche” trap assordanti, lasciandovi lattine di birra e contenitori da fast food.
Alcuni di loro fumano sui mezzi pubblici, rispondendo minacciosi a chi protesti: casi estremi, ma sempre meno rari. Cafonaggine e indifferenza al prossimo son diffuse oggidì in tutti gli strati sociali e in tutte le età. Non solo alcuni giovanissimi, infatti, esibiscono malacreanza a piene mani. Dai sette ai settant’anni, oggi le persone scortesi non si contano più.
Impossibile, sui mezzi pubblici, gustare il silenzio. Rarissimo chi parli sottovoce. Troppi urlano e gesticolano al telefono, spesso spettacolarizzando a gesti le proprie conversazioni, quasi a volerne far comprender meglio i dettagli a chi sta loro di fronte; molti, anzi, usano il vivavoce a volume alto, oppure parlano — o meglio, gridano — in videofonia. A ciò si aggiungano mendicanti e questuanti vari (che chiedono denari recitando a memoria storie compassionevoli), suonatori e cantori (a volte bravi, a volte inascoltabili) coi loro fragorosi impianti di amplificazione, comici improvvisati, prestidigitatori alloglotti, borseggiatori, e il quadro è completo.
La malagrazia è multiforme e creativa. Nelle città d’arte il silenzio non esiste più. Di giorno ogni cento metri si cambia musica: ad ogni crocicchio un musicista, un cantante, un fenomeno da baraccone spandono rumore ritmico a tutto volume, tra capannelli di curiosi plaudenti. Nessuno tutela la pubblica quiete, come nessuno multa gli idioti che modificano la marmitta a motociclette, microcar e auto di lusso per sfoggiare il proprio tonante motore e la vacuità della propria scatola cranica.
Di notte (ogni notte) la “movida” tormenta i residenti di mezza Penisola, in nome del “divertimento” di chi pretende il diritto di gettare i cervelli all’ammasso, urlando, picchiandosi, ballando per strada con la birra in una mano e la “canna” nell’altra.
In vacanza (anche all’estero) i bambini italiani si riconoscono perché dilagano ovunque incontrollati, quasi non avessero genitori: impegnati, questi ultimi, a rimirare il cellulare. Sulle scale mobili non tutti hanno la buona creanza di lasciare a sinistra lo spazio per chi avesse fretta e volesse salire o scendere gli scalini: spesso, chiedendo “permesso”, ci si sente rispondere in malo modo.
Per strada aumentano le vittime degli imbecilli che guidano ubriachi, o che chattano al cellulare invece di guardare la strada: ogni mezz’ora viene investito un pedone, spesso sulle strisce pedonali.
Il Paese sembra aver dimenticato la propria tradizione di umanità e gentilezza, che nei secoli passati faceva dell’Italia — col suo clima, la natura, l’arte e la storia — il giardino d’Europa. Perché questo disastro?
Il primo colpo alla cortesia nostrana è stato assestato dal consumismo imperante dagli anni ‘60. Dagli anni ‘80, poi, neoliberismo e TV spazzatura hanno fatto dell’individualismo e della scortesia un valore, uno spettacolo, un vanto.
Cultura e rispetto sono divenuti vecchi, sorpassati. Ciò si è saldato con un vizio antico del popolo che inventò il detto «Francia o Spagna, purché se magna»: il disprezzo per chi è corretto, il fastidio per chi è preparato, per chi ama studiare e capire, per chi parla solo di ciò che conosce, per chi fa dei valori umani un punto di riferimento.
Non a caso negli ultimi 40 anni la Scuola pubblica è stata pesantemente definanziata, e gli insegnanti così screditati da sentirsi in colpa e quasi vergognosi della professione che svolgono. Eppure è il Paese a doversi vergognare di come li tratta: sottopagandoli, screditandoli, legando loro mani e libertà (di pensiero e d’insegnamento), con continue “riforme” costo zero che hanno non riformato, ma deformato, gerarchizzato, ghettizzato, aziendalizzato la Scuola. È un caso se, durante tutto ciò, il Paese sprofonda nella sgarbataggine più abietta e nella più sordida rozzezza culturale, sociale, politica? O non è forse proprio vero che, gratta gratta, sotto la scorza dell’italiano medio si scopre sempre un inconsapevole e dispotico, tirannico, violento reazionario?
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