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Scuola: stipendi bassi perché ci lavorano quasi esclusivamente le donne?

Quote rosa: se ne parla da parecchi lustri, e la questione non è da poco. Permettere più della metà della popolazione italiana di raggiungere quella parità di diritti che l’articolo 3 della Costituzione impone (l’espressione “senza distinzione di sesso” è al primo posto nell’elenco delle discriminazioni, da eliminare secondo tale articolo) è principio sacrosanto, base non solo di ogni democrazia, ma di ogni civile convivenza.

Giusto quindi quanto stabilito dalla CGIL da svariati anni: nessuno dei due generi, donne e uomini, può essere rappresentato in tutti gli organismi dirigenti del maggiore sindacato italiano più del 60% e meno del 40%. E giustamente i tre più forti sindacati hanno più volte difeso il principio della presenza femminile nelle istituzioni.

E nella Scuola? Qui le cose sembrerebbero andare in modo ben diverso. “Credo che nella scuola ormai più che di quote rosa dovremmo parlare di quote azzurre perché la scuola si sta femminilizzando in maniera quasi esclusiva e credo che questo sia un impoverimento; nella scuola abbiamo bisogno di figure maschili per diverse ragioni sociologiche e per i cambiamenti stessi del mondo del lavoro“. Ad affermarlo è stata nel marzo scorso la dirigente dell’Ufficio Scolastico Territoriale di Bergamo, Patrizia Graziani, che ha chiosato: “Ormai il mondo dell’insegnamento è davvero dominato proprio dalle donne: credo tuttavia che debba tornare a essere un mondo un pochino più equilibrato con la presenza di entrambe le figure, quella femminile e quella maschile“.

Scuola: Isola Felice della gender parity?

“Quote azzurre”, dunque. Un’espressione forte, forse provocatoria, ma che illumina la differenza fra il mondo lavorativo scolastico e gli altri settori del terziario. Dobbiamo dedurne che la Scuola sia, sotto l’aspetto delle pari opportunità di genere, l’isola felice in cui la parità tra uomo e donna si è finalmente realizzata? A guardare le statistiche, sembrerebbe di sì. Anzi, parrebbe che nella Scuola si sia operata quella storica rivincita del genere femminile che tutti auspichiamo, dopo secoli di subordinazione ai maschi in ogni settore professionale: infatti, l’83% dei docenti è donna (più di quattro su cinque), e persino il numero delle Dirigenti scolastiche supera di poco quello dei colleghi maschi.

Anche se, considerando proprio quest’ultimo dato, salta subito agli occhi un fatto: gli uomini sono solo il 17% del corpo docente, ma costituiscono quasi la metà dei Dirigenti delle scuole. E va considerato comunque anche lo stipendio dei Dirigenti scolastici, molto inferiore quello dei Dirigenti di qualsiasi altro dicastero italiano.

Agli uomini non interessa più educare?

Secondo non pochi studiosi la sproporzione tra docenti uomini e docenti donne crea alla Scuola italiana numerosi problemi. Ne era convinta persino la grande antropologa Ida Magli (1925-2016), la quale sosteneva che i bambini e gli adolescenti devono imparare sia dalla donna che dall’uomo, perché i due generi hanno ideali, impulsi, percezioni, emotività, conoscenze diversi uno dall’altro e gli studenti devono assorbire dall’uno e dall’altro genere.

I maschi – si chiedeva l’antropologa – non hanno più nessun sapere da tramandare ai figli? nessun interesse per il futuro del Paese? Una meditazione sul distacco quasi totale dei maschi dall’insegnamento e dal sapere dei figli consentirebbe di comprendere che esso è parte di quello stesso distacco che si manifesta nella quasi totale incapacità creativa della società italiana di oggi.

“Trattamento speciale” per il dicastero delle donne

Poniamoci però allora qualche domanda. Esiste forse un nesso tra lo scarso stipendio riservato ai (ma sarebbe più aderente alla realtà scrivere alle) docenti d’Italia e la strabordante femminilizzazione della Scuola? Non sarà forse che lo Stato italiano ha coscientemente optato per un “trattamento speciale” riservato al comparto scuola proprio perché femminilizzato? Non sono forse un chiaro indizio di questa opzione gli stipendi da fame (più bassi di qualunque altro insegnante europeo e di qualsiasi altro laureato italiano), l’inserimento nel Pubblico Impiego (pur non essendo i docenti impiegati esecutivi), la subordinazione al Dirigente Scolastico conseguita all’autonomia, la legge sulla “Buona Scuola”?

E soprattutto, se ciò corrisponde a verità, parlare di “quote rosa” non potrebbe suonare quantomeno un po’ contradditorio in una Nazione che riserva il trattamento economico e giuridico peggiore proprio alla categoria che è composta quasi esclusivamente di donne?

Dovrebbero essere proprio le donne, dunque, le prime a risentirsi di questo trattamento, perché esigere maggiore equità è il primo passo verso l’uguaglianza nel rispetto della differenza.

Alvaro Belardinelli

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