La didattica a distanza, nel dibattito di queste ore, sembra essere diventata la panacea. Anzitutto, per sciogliere il pasticcio dei trasporti. Poi, per introdurre in forma chirurgica un frammento di lockdown, al fine di alleggerire la curva pandemica. Ma pochi, questa la mia opinione, si rendono conto delle conseguenze.
Perché la scuola non è solo didattica. La scuola, anzitutto, è palestra di vita, è relazione, è ricerca assieme, cioè è cultura. In altri termini, la scuola, vista in se stessa, e non secondo altre finalità, sembra di non godere, anche in questa stagione, di troppa fortuna. Per i temi relativi alla sicurezza sanitaria, è giusto riconoscere che le scuola hanno e stanno facendo i salti mortali. Con buoni riscontri, tant’è che i rischi di contagio provengono più dall’esterno che dall’interno.
Ma una domanda, considerate tutte le questioni, credo sia spontanea: perché partire dalle scuole quando si ipotizzano nuove restrizioni? Basta fare un giro per i nostri paesi, e ci si accorge che altri sono i luoghi della promiscuità, del rischio. Ovviamente, non sono contro le movide o altro, purché nel rispetto delle garanzie sanitarie. Cosa che a scuola si fa.
Qual è il valore aggiunto anche in questi mesi? Semplice: a scuola ci si sta educando, si sta assieme imparando anche questo. Cioè a vivere in sicurezza. Si è davvero convinti che chiudendo le scuole superiori, al di là di una certa turnazione già in atto tra e nelle classi numerose, si risolvono i problemi aperti? Che messaggio diamo ai nostri ragazzi, anzitutto?
Possibile che l’unico criterio, per decidere quali e quante restrizioni, sia il calcolo politico-economico? La pandemia ci ha insegnato la fragilità, il senso del limite. Forse un po’ di senso del limite non guasterebbe anche nella scelta delle priorità sociali.
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