Come ogni inizio legislatura, si riaccende il dibattito sulle scuole paritarie. Il 25 luglio, dinanzi alla Commissioni Cultura congiunte di Senato e Camera, ne ha parlato anche il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, sostenendo che le scuole paritarie, oltre a garantire la pluralità di scelta educativa, assicurano un servizio che consente di risparmiare risorse finanziarie, per servizi educativi che dovrebbero essere erogati dallo Stato.
Una delle possibili soluzioni da adottare in questo ambito, potrebbe essere quella del costo standard, intesa come libertà di scelta educativa da parte delle famiglie.
Si tratta di un modello di finanziamento che non prevede, è bene ribadirlo, il finanziamento diretto dei fondi statali agli istituti: l’intento è quello di affidare ai genitori la scelta della scuola dei figli, destinando in questo modo la quota standardizzata prevista per l’iscrizione e la frequenza delle lezioni, messa a loro disposizione dallo Stato.
Su questa possibilità, dopo avere sentito il parere di suor Anna Monia Alfieri, presidente Fidae Lombardia, paladina del costo standard, e avere accolto le reazioni di alcuni lettori, La Tecnica della Scuola ha intervistato Renata Puleo, già dirigente scolastica di un istituto Comprensivo di Roma, redattrice dell’Appello per la Scuola Pubblica 2017, con 13mila firmatari, attiva nel gruppo NoINVALSI, nell’associazione “Per una Scuola della Repubblica” e in gruppi di studio contro le forme di Alternanza Scuola-Lavoro.
Dottoressa Puleo, cosa pensa del costo standard, di cui si è tornati a parlare nelle ultime settimane in avvio di nuova legislatura?
La locuzione “costo standard” utilizzata con insistenza da Suor Monia Alfieri, della Fidae, non può essere compresa separandola dal contesto in cui si è costruita la narrazione sul principio di sussidiarietà, le cui prime tracce si trovano, non a caso, addirittura nell’Enciclica Rerum Novarum del 1891: è una risposta cattolica di Leone XIII al socialismo e all’impegno dello Stato nell’ambito dei sevizi all’istruzione e all’educazione.
Quindi secondo lei il costo standard rientra a pieno titolo nel finanziamento delle paritarie?
La Chiesa è in prima linea nella rivendicazione di un ruolo almeno “paritario” con la scuola pubblica, nei diversi gradi: dai nidi alle superiori. Ma è un discorso storico-politico molto complesso che qui non mi è possibile affrontare, su cui servirebbe una riflessione non dettata dal tentativo di ottimizzazione dei soli costi del comparto istruzione, bensì attenta ai fini ideologici che attraverso di essa vengono perseguiti.
Non pensa che un modello di questo genere possa innescare una corsa al miglioramento anche tra le scuole pubbliche?
Il miglioramento della scuola pubblica si ottiene con investimenti nella scuola pubblica. La legge 62/2000, che segue le tracce di quella emiliana del 1995, sostiene costi per gli istituti non statali e contraddice due principi costituzionali: quello che consente la libertà di impresa in ogni campo e il secondo che esclude – nel caso delle imprese legate alla istruzione – oneri per lo stato.
La riforma Renzi ha però cercato di affrontare questo aspetto. O no?
Purtroppo senza esiti positivi, perché la questione rimane irrisolta proprio sul piano della sua legittimità. Il decreto legislativo 65/2017 sulla formazione tra zero e sei anni, ad esempio, non essendo affatto quel che dichiara nei principi, ovvero un’armonizzazione di servizi e strutture perla prima infanzia oggi dispersi, in mancanza di un progetto politico, rischia di favorire solo il settore privato, convenzionale-cattolico, e il welfare aziendale.
Ma ci sono delle famiglie che preferirebbero decidere in autonomia la scuola dei loro figli…
Una buona offerta pubblica sul territorio, composta da Enti locali e Stato, sostenuta con investimenti massicci soprattutto al Sud, costituirebbe un’ottima possibilità di scelta per i genitori; chi poi volesse effettuare un’opzione confessionale e di altro tipo sarebbe libero di farlo. La risoluzione di Strasburgo sulla libertà genitoriale, recentemente pubblicata e pubblicizzata da Avvenire, avrebbe senso in un Paese dove fosse garantito il servizio pubblico, fuori dal ricatto “o privato o nulla”. Un investimento mirato, e un minore divario dei redditi, eviterebbe i guasti lamentati dalla Fidae Lombardia fra chi può pagare e chi no. Ogni scelta è vincolata, se alla mancanza di reddito si abbina quella della caduta del welfare pubblico.
Lo sa che molte scuole paritarie stanno chiudendo ed altre, senza un intervento celere, sono destinate alla stessa fine?
Sempre in base ai principi costituzionali che ho appena citato, chi decide di aprire un istituto scolastico deve sostenere il connesso rischio di impresa. È ovvio che il privato debba ricevere finanziamenti, se è chiamato a sostituirsi sul territorio ad enti locali strozzati da vincoli di bilancio e a governi centrali sordi all’importanza di investimento a lunga scadenza sull’educazione. Di necessità, virtù?
Però la scuola dell’infanzia e primaria coprono territori al posto della scuola statale e con un costo minimo rispetto a quello di cui si dovrebbe fare carico lo Stato…
Le economie che vanno sotto la voce costo standard sono frutto non solo di “oculate” gestioni, come vuole il mantra di suor Monia Alfieri, ma soprattutto del sistematico sfruttamento dei lavoratori: sottomessi su orari, salario, contributi, eccetera. La tripartizione contrattuale (FISM; AGIDAE; ANINSEI) sostenuta dai datori di lavoro, favorisce il dumping salariale.
Quindi, lei sostiene che negli istituti non statali il servizio che si dà all’utenza, si attua anche grazie ad un trattamento sfavorevole di chi opera in queste scuole?
Non lo dico io, ma sono fatti oggettivi. In questi istituti, come dimostrano anche altri settori produttivi, il vero risparmio in termini di costi, e dunque di spesa per consumatore-cliente-utente, si realizza con il mancato gettito fiscale, soprattutto da parte degli enti religiosi, e con l’abbassamento del costo del lavoro, a detrimento della qualità del servizio, senza possibilità di controllo da parte delle stesse famiglie che già pagano come soggetti tassati per servizi che dovrebbero essere offerti di diritto.
Questo giustificherebbe il fatto che docenti e impiegati operano nelle strutture scolastiche paritarie per tempi limitati?
Infatti. Lo hanno denunciato dalle stesse strutture paritarie: appena possibile, le educatrici e i docenti impegnati nelle scuole paritarie cercano di evadere verso settori del pubblico.