Questo il testo del suo articolo:
Il coro dei contrari è unanime: dai professori ai sindacati. Dal Pd al Pdl. In un momento in cui a tutti è chiesto un grande sacrificio, la casta delle nostre scuole non ci sta. Appoggiata dalla politica che la considera, proprio per la sua numerosità, un bacino elettorale da non contrariare. I contribuenti sopportano più tasse, hanno meno detrazioni, le imprese pagano più che nel resto d’Europa, le aziende private sono costrette a fare contratti di solidarietà, le fabbriche chiudono, abbiamo almeno un milione di pensionati (tra esodati e ricongiunzioni onerose) in ambasce, ma i nostri professori considerano un loro diritto intoccabile lavorare 18 ore alla settimana. E l’aumento di sei ore viene considerato pericoloso. Per essere precisi un insegnante di italiano lavora circa 700-800 ore l’anno, per 165-175 giorni. Fate un conto su voi stessi.
Sindacati e professori dicono che lavorano anche al di fuori dell’aula. Sacrosanto. Ma per quale motivo non hanno mai voluto quantificarlo nei loro contratti collettivi? Per quale motivo la maggioranza dei nostri insegnanti gode di fatto di più ferie di quante essi avrebbero sulla carta? Motivo per il quale possono allegramente considerare l’aumento delle ferie proposto dal governo (da 35 giorni a 50) non come un miglioramento della loro vita lavorativa, ma come qualcosa che già hanno in tasca.
Cosa insegna questa storia?
1. Insegnanti, politici e sindacati come prima cosa obiettano che con questo innalzamento dell’orario di lavoro, verrebbero meno le necessità di supplenza e dunque ci sarebbe minore necessità di ricorrere a insegnanti precari per coprire i buchi. È precisamente il motivo per cui Profumo ha pensato la norma: i dipendenti pubblici lavorino di più, così da contribuire alla riduzione dei costi dello Stato. Questa obiezione tradisce il senso ultimo delle palle ideologiche sulla formazione che si sentono in giro. La pubblica istruzione non è pensata per le generazioni future, ma come ammortizzatore sociale per il lavoro. Ciò che contano non sono gli studenti e la qualità dell’istruzione, ma la possibilità di impiegare più personale. Almeno abbiate il coraggio di dirlo chiaramente, senza ipocrisie: la scuola non serve a formare studenti, ma a generare posti di lavoro. Qualche sospetto lo avevamo da tempo: dietro a tante belle questioni pedagogiche, il passaggio alle tre maestre elementari poggiava le sue radici più profonde e nobili nella necessità di triplicare le cattedre.
2. La scuola è l’ultimo residuo del consociativismo che ha generato irresponsabilmente il nostro debito pubblico. Sinistra e destra a parole dicono che si deve investire nel futuro dei giovani, in pratica perseguono solo il loro interesse clientelare e corporativo di coccolare una vasta base elettorale, che soprattutto in campagna elettorale è molto utile. I politici, per la gran parte contrari all’innalzamento dell’orario di lavoro, cadono in una contraddizione clamorosa. Da una parte si mostrano indignati per gli aumenti della pressione fiscale e dall’altra ne sono responsabili mettendosi contro ad ogni tentativo serio di taglio e riorganizzazione della spesa pubblica.
L’ultima considerazione riguarda quei numerosi professori che ancora svolgono il loro dovere con coscienza e serietà. Che già oggi lavorano 24-30 ore alla settimana, senza alcun riconoscimento pubblico, che amano i loro studenti e la propria missione. E che vedono la professione schiacciata da un conformismo al ribasso in cui ai diritti sindacali non corrisponda alcun dovere educativo. Dal punto di vista lavorativo sono proprio costoro i primi a pagare il micidiale accordo consociativo basato sullo scambio: poco lavoro, poco stipendio. E gli studenti? A no, quelli non contano. Sono solo uno strumento di lavoro.
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