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Se in Cina le scuole terremotate non vengono ricostruite…

Questa storia è rivolta principalmente a quei ragazzi abruzzesi che lo scorso 6 aprile si sono ritrovati in pochi minuti senza più averi e senza più casa. Alcuni di loro anche senza più scuola. A tutti loro il Governo italiano ha chiesto di avere pazienza ed ha assicurato che entro il mese di novembre metterà a disposizioni delle soluzioni alternative alle attuali tendopoli.
Le situazioni che si raccontano sono lontane da loro, fisicamente e per cultura, ma si accomunano se non altro per la devastazione del terremoto. Da italiani sappiamo tanto, tantissimo, del nostro sisma. Poco, pochissimo, invece, di quello scatenatosi un anno fa a 60 chilometri a Nord di Chengdu, nella zona del Sichuan. In quell’occasione della scuola media superiore “Juyuan”, a Dujiangyan, rimase veramente poco: sotto le sue macerie morirono ben 300 studenti e 7 insegnanti.
E per ricostruire l’edificio scolastico, come la maggior parte di quelli crollati, occorrono molti soldi. Che il Governo dice di non avere. E quindi i cittadini, alunni cinesi compresi, si sono in prevalenza abituati a convivere con l’emergenza. Già l’impresa di capire quali siano gli studenti rimasti uccisi sarebbe un obiettivo importante. Soprattutto perché accertato in un Paese dove predominano la faziosità e la censura.
“La gente ha paura di parlare, raccontare la propria storia e chiedere quello di cui ha diritto” ha detto Lao Wu (nome fittizio), uno dei volontari del progetto dell’artista Ai Weiwei per compilare una lista degli studenti periti nei crolli delle scuole e renderla pubblica. E’ stato nel Sichuan per due settimane e in poco più di dieci giorni ha visto la situazione peggiorare, le famiglie sottoposte a pressione e i volontari minacciati, mano a mano che il valore del progetto si rendeva evidente. “Perché non vogliono che si pubblichino i nomi? Perché dall’elenco dei morti in una scuola si può facilmente evincere che l’edificio aveva problemi di costruzione e richiamare i Governi alle proprie responsabilità” dice Lao Wu. Nelle due settimane che ha passato sul campo ha raccolto soltanto 18 nomi, troppo pochi. A Jiangyou è stato fermato dalla polizia solo tre ore dopo aver iniziato le indagini; è stato perquisito, i dati di cellulare e macchina fotografica cancellati, e infine condotto dagli agenti nella contea di Deyang. “Fai quello che vuoi altrove ma non qui da noi, mi hanno detto”.
“Il nostro obiettivo è che i nomi siano pubblici e le famiglie esercitino i propri diritti” spiega Lao Wu. La stessa stampa cinese si è occupata dell’argomento a poche settimane dall’anniversario del primo anno del terremoto. Un editoriale del Nanfang Dushi Bao, quindici giorni fa, reclamava che in Cina i diritti umani avranno senso solo quando i nomi degli studenti e delle persone perite nel sisma del Sichuan saranno resi noti. Per ora ciò che preme maggiormente è, però, la ricostruzione, l’unico modo per ridare lustro alle autorità locali e calmare gli animi dei genitori disperati.
Ora, quella dell’Aquila rimane e sarà sempre una tragedia nazionale: i 299 morti che ha provocato sono e rimarranno sempre un tributo altissimo. Ancora di più alla luce delle costruzioni tutt’altro che rispettose delle norme antisismiche. Di sicuro, però, se si ha la forza di guardare ad altre realtà, sparse per il mondo, tutto si ridimensiona. E forse anche i diretti interessati, le decine di migliaia di sopravvissuti, oggi “sistemati” nelle tende, leggendo queste poche righe su storie ancora più difficili e pesanti si sentiranno un po’ meno soli. E per una volta prima di dormire non diranno più: “perché proprio io, a casa mia, nella mia scuola…”. Forse.
Alessandro Giuliani

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