Su Italia Oggi c’è spazio per la riflessione di Adolfo Scotto Di Luzio, docente di Storia della Pedagogia all’Università di Bergamo. L’accademico scrive riguarda all’autorizzazione, da parte del Miur, dell’utilizzo dello smartphone in classe.
Una commissione di saggi avrà il compito di redigere le linee guida per fare chiarezza sull’utilizzo dei dispositivi personali degli studenti in classe.
Dieci anni fa, nel 200, il ministro Fioroni vietà l’uso dei telefonini in classe perché fonte di distrazione, quasi una forma di insolenza. Dieci anni dopo, prima il sottosegretario Faraone, ora addirittura la ministra Fedeli aprono al ritorno del cellulare sui banchi di scuola.
Diverse le perplessità mosse dal professore Di Luzio: “Quando l’uso dei telefonini sarà libero e non dovrà sottostare a nessuna autorizzazione o sanzione, come si potranno evitare video e foto messi in rete senza rispetto delle persone, siano essi compagni di scuola o professori. Al Miur usano la solita retorica dell’uso consapevole della tecnolofia, ma non è così. […] Lo smartphone in classe è il passaggio da una tecnologia come servizio offerto impersonalmente dall’istituzione scolastica ad una tecnologia come bene di consumo di proprietà del singolo studente. L’inganno è duplice e con esso l’offesa alla scuola”.
C’è di più: “In un mondo in cui il possesso del telefonino intelligente rappresenta una modalità totalitaria di consumo culturale, il libro costituisce l’oggetto desueto e funziona come metafora del rapporto con ciò che non è il nostro mondo.
[…] La verità è che se il ministro Fedeli fosse chiamato a rendere conto degli esiti dell’impiego di tablet e software vari per la didattica (cioè per l’insegnamento che quotidianamente si svolge in classe) sarebbe costretto a riconoscere un fallimento. La sua idea di scuola si avvicina più a quella di un centro commerciale che con un’istituzione nazionale radicata nel patto costituzionale tra gli italiani”.
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