Categorie: Università e Afam

Se non si torna ad investire rischiamo di svuotare gli atenei

“Se non si inverte la rotta, tornando ad investire sulla conoscenza, rischiamo di svuotare le università”. A sostenerlo è Marcello Pacifico, presidente Anief e segretario organizzativo Confedir, seguito dell’allarme lanciato dal Governatore della Banca d’Italia, Vincenzo Visco, sullo scarso rendimento in termini di redditi lordi dei lavoratori italiani laureati rispetto a quelli dei grandi Paesi europei (-15 punti). Ma anche dal consorzio Almalaurea, che nelle stesse ore ha messo in evidenza le difficoltà crescenti dei laureati nel trovare un impiego (negli ultimi cinque anni ad un anno dal titolo si è passati dal 10% al 26,5% di neo-dottori disoccupati), l’aumento del lavoro nero intellettuale (schizzato al 13% tra i laureati a ciclo unico) e gli stipendi ‘da fame’ (attorno ai mille euro) che sono costretti ad accettare sempre più giovani che concludono gli studi accademici.
Il calo di interesse che si sta manifestando per l’Università italiana è sempre più evidente. A tutti i livelli. In entrata, perché le immatricolazioni negli ultimi 10 anni si sono ridotte del 20,6%: ormai vi si iscrive appena il 30% dei diplomati. In itinere, visto che il dato nazionale di giovani che lascia nel corso del primo anno, dopo l’iscrizione, sfiora le 60mila unità: è come se ogni anno scomparisse un ateneo della grandezza dell’Università Statale di Milano.
Ma anche in uscita, come ravvisato in queste ore, la situazione sta precipitando. Con la crisi economica e lavorativa che sta producendo effetti devastanti sulla spendibilità della laurea: in Calabria i giovani tra i 24 e i 35 anni sono infatti 314 mila; in Puglia quasi 630 mila; in Campania poco meno di 920 mila; in Sicilia 775 mila. Sommati fanno oltre 2 milioni e mezzo. Calcolando una media, per queste quattro regioni, intorno al 16% di laureati in quella fascia d’età, si ha un raggruppamento di quasi 420 mila giovani calabresi, pugliesi, siciliani e campani. E poiché secondo l’Istat nel Mezzogiorno i 25-34enni laureati inattivi sono uno su tre, il 33,5%, rappresentano ben 140 mila i laureati che, solo al Sud, non lavorano. Viene da chiedersi cosa faranno, visto che lo stato delle aziende italiane è pessimo: nel biennio 2011-2012 ne sono state chiuse oltre 100mila.
E se i giovani non studiano e non lavorano è inevitabile che vadano a riempire la categoria dei Neet: nel 2012, ha rilevato il Cnel, sono arrivati a 2 milioni 250 mila, pari al 23,9%, ovvero circa un giovane su quattro tra i 15 e i 29 anni: il loro numero è “aumentato – conferma l’Istat – di 95 mila unità (4,4 per cento); dal 2008 l’incremento è stato del 21,1 per cento (+391mila giovani)”.
Non c’è da meravigliarsi se se nell’ultimo decennio gli under 35 che sono stati costretti recarsi Oltralpe in cerca di un impiego sono più che raddoppiati, passando da 50 mila a 106 mila. E se nel 2012 l’incremento di coloro che hanno acquisito una residenza straniera (il 54,1% ha meno di 35 anni) ha toccato livelli record, facendo registrare un +28,8% rispetto al 2011. E non ci si può meravigliare nemmeno quando l’Istat ci dice che dal 1983 il numero di ultratrentenni che continuano vivere con la famiglia di origine, quasi sempre con mamma e papà, è quasi triplicato.
E a fronte di tutto questo, i Governi italiani che si sono succeduti negli ultimi anni non hanno saputo fare di meglio che tagliare. Anche nell’Università. Dove a seguito dellaLegge 240/2010, abbiamo assistito alla progressiva riduzione del personale docente e dei corsi di laurea. E alla perdita del ricercatore. Con il risultato che il numero di giovani che oggi raggiunge la laurea rimane tra i più bassi dell’area Ue, oltre 15 punti percentuali sotto la media europea. Ma nessuno tra chi gestisce le sorti del Paese ci fa caso, visto che (dati Ocse) l’Italia si piazza per investimenti nella scuola al 31° posto tra i 32 dell’area: solo il Giappone fa peggio.
“Alla luce dei dati negativi che si succedono, non dobbiamo sorprenderci – sostiene Marcello Pacifico – se poi l’Università viene snobbata dai nostri giovani. Come confermato, di recente, anche dall’Istat, che nell’ultima rilevazione nazionale ha ravvisato un calo di quasi 10mila immatricolazioni (il 3,3%). In un periodo difficile, dal punto di vista socio-economico, come quello che stiamo vivendo, permettere ad un giovane di frequentare gli studi universitari per molte famiglie italiane rappresenta un impegno gravoso. Che può essere affrontato solo laddove rappresenti un investimento sicuro, come lo è stato a partire dal dopoguerra sino alla fine degli anni Ottanta. Quando i corsi di studi erano gli stessi di oggi. E nessuno pensava, forse vaneggiando, che per innalzare il livello occupazionale – conclude il sindacalista Anief-Confedir – non bisognasse investire di più su formazione e apprendistato in azienda, ma eliminare il valore legale del titolo di studio”.
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