La pubblicazione delle linee guida sulla riforma della scuola sta facendo molto discutere, data la sua ampiezza e la molteplicità di temi che sono coinvolti in questo ambizioso progetto di riforma. Indubbiamente il clamore mediatico riguarda tutto il settore, ma c’è un elemento che pare passare in secondo piano ed invece riteniamo fondamentale, perché mina alle basi stesse qualsiasi progetto di riforma complessiva.
La “riforma della scuola” e “la riforma del sostegno”
Il primo punto che lascia perplessi è il fatto che nel documento “ufficiale”, quello pubblicizzato e su cui è stato chiesto un confronto esplicito a tutti i cittadini, “perché ci vuole un Paese intero…”, si cita solo a pagina 78 l’importanza di una scuola inclusiva, senza tuttavia spiegare in che modo si intenda perseguire l’obiettivo. Niente affatto pubblicizzato è invece il testo della proposta di legge che Davide Faraone orgogliosamente rivendica come fiore all’occhiello della riforma… Ebbene, è evidente che non si è pensato di proporre un unico progetto di riforma dell’organico dei docenti che riguardi anche l’inclusione, ma si è pensato fosse meglio una proposta separata. Ciò che riguarda il sostegno, secondo quest’ottica, deve essere separato dal resto, meglio se non pubblicato nelle linee guida, ma lasciato nelle segrete stanze della politica e delle associazioni a tutela dei disabili. Peccato che negli articoli di questa proposta di legge si celino messaggi molto pericolosi e senza un’adeguata diffusione si rischia di non coinvolgere i più interessati a qualsiasi cambiamento, i docenti tutti e quelli di sostegno in particolare. Non credo che questa scelta sia casuale, ma risponde alla precisa logica secondo la quale ciò che riguarda i disabili è “specialistico”, “settoriale”, “particolare”, e come tale si pensa di trattarlo. Si coglie qui la prima, macroscopica contraddizione: perché occorre una legge separata sull’inclusione se la scuola deve essere per sua stessa natura inclusiva? E poi, di cosa si ha paura quando si fanno proposte di legge senza il diretto coinvolgimento di chi poi le deve attuare?
La separazione delle carriere e l’obbligo decennale di permanenza
Questa è, in estrema sintesi, la proposta che il governo ha in mente per favorire l’inclusione e per motivare i docenti di sostegno a scegliere questa carriera professionale. Nell’articolo 4, in particolare, si propone “l’istituzione di specifici ruoli” per i docenti di sostegno, mentre nell’articolo 6 si afferma che i docenti di ruolo di sostegno “devono permanere per almeno dieci anni in questo ruolo”, dopo i quali potranno eventualmente chiedere solo passaggio di cattedra, secondo nuove regole, su posti contingentati, il che significa estremamente limitati. In pratica, chi farà il docente di sostegno dovrà farlo a vita.
Il punto di partenza che spinge in questa direzione è la percezione diffusa che i docenti di sostegno abbiano usato questo canale per entrare più velocemente di ruolo e non siano interessati per “vocazione” a svolgere questo mestiere. Per evitare questo fenomeno si pensa allora di imporre ai docenti una carriera separata. E’ decisamente facile proporre obblighi e divieti, meno facile è fare i conti con gli errori ministeriali che hanno portato l’opinione pubblica a denigrare così tanto i docenti di sostegno.
Ricordo solo due elementi, anche se molti ce ne sarebbero, per dimostrare il contrario: non è certo stata volontà dei docenti specializzati se con la riforma del Ministro Gelmini negli ultimi anni sono stati drasticamente tagliati posti di insegnamento curricolari e non quelli di sostegno, ma è stata una precisa scelta del Governo. Anzi, sono stati incrementati i posti in organico di diritto proprio per favorire la continuità e le immissioni in ruolo, ancor più secondo le direttive del Ministro Carrozza. Il risultato di questa scelta ministeriale (non dei docenti) sono state assunzioni più numerose in un canale e bloccate nell’altro. Il secondo punto, certo più “tecnico” ma non meno importante, riguarda le istruzioni operative delle immissioni in ruolo, che permettono ad un docente specializzato di rifiutare una nomina su posto di sostegno solo se la chiamata da posto comune avviene nello stesso anno scolastico, mentre se la nomina su sostegno avviene anche solo un anno prima, il docente è obbligato ad accettare il posto di sostegno, pena il depennamento anche dal posto comune.
Non ci vuole molto per capire che se il Ministro ha di fatto bloccato le assunzioni curricolari e non quelle di sostegno, molti docenti non avranno avuto la possibilità di scegliere attraverso quale canale entrare nella scuola, perché saranno stati chiamati prima dall’elenco di sostegno e avranno dovuto necessariamente optare per quel tipo di insegnamento. Inoltre, non vi è solo l’”obbligo” di assunzione, ma vige anche l’obbligo quinquennale di permanenza su posto di sostegno. Quindi c’è già un doppio obbligo…
Come si può accusare i docenti di aver cercato una più veloce stabilizzazione attraverso il sostegno se è stato il Ministero ad aver volontariamente optato per un incremento di posti di sostegno e un taglio di posti curricolari? E come si può accusare i docenti di sostegno di desiderare il passaggio al posto comune se all’atto dell’assunzione una precisa norma impediva, di fatto, una scelta libera?
E’ molto facile vedere il problema dagli effetti e non dalle cause, ma se il Ministero si assumesse la responsabilità delle scelte compiute negli ultimi anni, forse capirebbe che il problema non può essere risolto con norme punitive per chi non ha responsabilità, ma ha solo offerto un servizio alla scuola proprio quando ne aveva più bisogno e già ha subito vincoli e restrizioni che nessun altro insegnamento nella scuola ha.
La mobilità professionale come risorsa ne “la buona scuola”
Alla pagina 58 delle linee guida si legge che nel sistema basato sul merito si incentiverà la mobilità geografica e la mobilità professionale, “ossia da cattedra a organico funzionale e viceversa, affinché progressivamente tutti i docenti abbiano, nel corso della loro carriera, la possibilità di svolgere tanti lavori diversi ma complementari – dal fare lezione in classe, allo sviluppare la progettualità extracurricolare, al seguire la formazione dei tirocinanti – che contribuiscono tutti a migliorare i progetti formativi delle scuole e in generale a far crescere i ragazzi. Questa mobilità sarà la migliore garanzia contro il rischio di creare due compartimenti stagni. Permetterà inoltre di venire incontro alle esigenze personali e professionali dei diversi docenti, consentendo loro di fare tante esperienze diversee servirà al sistema, nel suo complesso, per migliorarsi nel tempo e realizzare la vera autonomia”. Meravigliose parole, che mostrano come nell’idea di “buona scuola” vi sia la tutela delle ambizioni personali e professionali dei docenti, che devono avere la possibilità di svolgere tante mansioni diverse come spinta alla realizzazione, incentivo alla produttività, evitamento del rischio di burn out, buona competizione…
Una sola domanda, semplicissima ma disarmante: perché i docenti di sostegno no? Perché loro devono fare una scelta di vita definitiva? Forse la “vocazione” che ha in mente il legislatore è innata e immutabile nel tempo? O forse, velatamente, il messaggio che si vuole far passare è che i docenti di sostegno in fondo non sono docenti, ma specialisti, vocazionati, missionari? E se non lo sono, allora devono essere puniti?
Ricordo che già oggi, nella “non buona scuola”, altre categorie di docenti desiderano una modifica del loro profilo professionale tramite richieste di passaggio di ruolo o di cattedra, con la differenza che qualsiasi docente può chiedere la mobilità già dopo l’anno di prova, non ha nessun quinquennio di obbligo di permanenza e questa scelta non viene denigrata come “scorciatoia”, ma applaudita come legittima progressione di carriera.
Per tutti questi motivi i docenti di sostegno non accettano più di essere trattati come i “furbetti”, secondo una pessima definizione data anni fa da Gian Antonio Stella e che ha contribuito ad acuire nell’opinione pubblica questa percezione distorta, ma rivendicano di essere considerati come docenti che si sono specializzati per offrire un servizio in più alla scuola e che mai accetteranno ulteriori vincoli o la separazione delle carriere.
Gli scenari possibili dei prossimi anni
Non si può favorire l’inclusione separando e motivare obbligando, crediamo di averlo ampiamente dimostrato: questa proposta di legge è frutto della paura del legislatore di fronte a un settore problematico come quello della presa in carico della disabilità e della mancata assunzione di responsabilità rispetto a scelte ministeriali del passato che hanno coinvolto, loro malgrado, docenti oggi demotivati e preoccupati dal continuo proporre cambiamenti di norme e inasprimenti di vincoli.
Se questa proposta dovesse mai trovare voce in Parlamento, sarebbe la morte dell’inclusione scolastica, perché gli scenari possibili, a questo punto, sarebbero due:
– nella migliore delle ipotesi, data la fame di lavoro e la necessità di molti docenti di trovare stabilizzazione, i docenti continueranno a specializzarsi per poter lavorare, ma tutto ciò non è affatto garanzia di motivazione, solo di continuità coatta (e molto spesso, in questi casi, deleteria al massimo grado); cercheranno di difendersi da un burn-out senza uscita alimentando ancor di più la percezione dei docenti di sostegno come fannulloni o deleganti; in più, non avranno la possibilità di avanzamenti di carriera e di sperimentare tutte le belle attività che “la buona scuola” prevede per gli altri docenti e si sentiranno ancor più isolati dagli altri colleghi
– nella peggiore delle ipotesi, invece, di fronte a tali e tanti obblighi i docenti non se la sentiranno più di intraprendere a priori e a scatola chiusa una “scelta di lavoro definitiva” e pochi si specializzeranno; i posti di sostegno, già oggi coperti in parte da personale non specializzato, saranno ancor più vacanti: se così fosse, per tutelare l’inclusione scolastica avremmo ottenuto l’esatto contrario di quello che serve alla scuola.
Oggi abbiamo bisogno di un numero sempre maggiore di insegnanti specializzati, che lo facciano per scelta, perché possa essere una carta in più di “merito” da giocarsi nella scuola, senza vincoli, perché possano lavorare per parte delle ore in attività di sostegno senza dover rinunciare al loro essere anche insegnanti di materia. Perché siamo insegnanti anche noi, perché bisogna avere l’umiltà di capire che un docente non può occuparsi solo di situazioni problematiche, ma per crescere ha bisogno di vivere la scuola come ambiente ricco e la disabilità deve essere una delle tante possibilità di sperimentazione, per far sì che i docenti non ne abbiano paura e che venga colta dal maggior numero di persone possibili. Questa sarebbe “la buona scuola”. Altre proposte di legge che vanno in questa direzione sono già state fatte sull’evoluzione dell’insegnante di sostegno: meritano di essere prese in considerazione, di essere sperimentate, valutate negli esiti, incrementate, perché sono molto più coerenti con “la buona scuola”.
Chiediamo fortemente al Parlamento la possibilità di essere ascoltati, noi docenti di sostegno, di poter scegliere la strada della condivisione, della cooperazione, di poter trasformare il nostro ruolo secondo le linee guide prospettate per TUTTI i docenti.
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