Attualità

Semianalfabeti diplomati, politici senza laurea, laureati netturbini: la pedagogia sociale italiana

Notizia-simbolo: con regolare concorso, Barletta sono stati assunti come operatori ecologici (ossia netturbini, secondo il vocabolario Treccani) tredici candidati; quattro dei quali sono diplomati, e ben nove laureati. Primo classificato un laureato in Ingegneria civile con 110/110 e lode: Giuseppe Moreno Di Trani, 35 anni, ha conseguito la Laurea al Politecnico di Bari nel dicembre 2012. Dopo sette anni di disoccupazione, frustrazioni, rinunce, Di Trani ha optato per l’understatement: un lavoro poco retribuito ma sicuro, per guardare al futuro con serenità.

Meglio spazzino che precario (anche perché lo spazzino è pagato come un docente)

«Ero stufo – dichiara l’ingegnere a La Repubblica – di lavoretti precari, sottopagati, o gratis. Stufo, come molti della mia generazione, di affrontare una realtà lavorativa disarmante. Mi son detto: sei laureato e puoi fare la tua strada, quella per cui hai studiato. Ma quanto tempo ci metterai? È ammissibile raggiungere un minimo di stabilità a 60 anni?” E mi son risposto: non guardare il titolo di studio, lavora e basta».

D’altronde lo stipendio di un “operatore ecologico” non è spazzatura: uno spazzino fine carriera guadagna 1830 euro; come un professore di Scuola Superiore dopo 30 anni di docenza! Semmai chiediamoci: guadagna troppo il netturbino o troppo poco il docente?

Pedagogia sociale neoliberista = Studiare è inutile

La pedagogia sociale di questo Paese è sempre più evidente. Il neoliberismo imperante, dopo 30 anni di proclami circa la “fine del posto fisso”, la necessità di farsi “imprenditori di se stessi”, di non cercare “l’assistenzialismo di Stato”, ci dona finalmente i propri frutti. Primo fra i quali l’idea — da inculcare ai giovanissimi — che studio, onestà e fatica siano virtù da fessi, da perdenti in stile fantozziano. Idea già popolare nell’Italietta Felix ben prima del neoliberismo (è nostrano il detto “primo nella scuola, ultimo nella vita”); ma ormai strabordante nell’epoca della demolizione controllata di Scuola e cultura italiane, spacciata per “modernizzazione” colpi di cacofonici neologismi anglobalizzanti (come Data School, problem solving, decision making, gamification, Content and Language Integrated Learning, School Guarantee e via “itanglesizzando”).

Il cronoprogramma del declino

Intanto i giovani se ne vanno: 128.583 soltanto nell’ultimo anno (mentre le nascite calano al minimo storico dal 1861). Un autentico “declino programmato” del Bel Paese? Così parrebbe, giudicare dalle scelte politiche che a tutto ciò hanno portato. Eppure all’estero due terzi dei giovani laureati fuggiti dalla Penisola trovano subito lavoro, e ad alta specializzazione. Che sia quindi il “sistema Italia” non funzionare, più che la Scuola dello Stivale? Sta di fatto che in Italia i migliori non hanno mercato e son costretti ad andarsene; mentre il livello culturale medio di chi resta si abbassa sempre più (come prova questo video).

Se i diplomati sono semianalfabeti

Frattanto però l’Ocse ci ripete che la Scuola italiana influisce sempre meno sulla preparazione degli alunni, lasciandoli (se provenienti da contesti culturalmente deprivati) semianalfabeti, ottusi, massificati, muti d’accento e di pensiero come il sistema li vuole: massa bruta, pronta per precariato, bassa manovalanza e retribuzioni infime; politicamente manovrabile, perché ignorante, inconsapevole e soddisfatta della propria ignoranza. Tanto «con la cultura non si mangia»! Perché una Scuola realmente classista è la Scuola che non insegna più a distinguere il vero dal falso, il giusto dall’iniquo, il bello dal vomitevole.

Che lo voglia il sistema è dimostrato dalla politica scolastica dell’ultimo trentennio: docenti alla fame, scuole che crollano, promozione assicurata per quasi tutti (meritevoli o meno); mentre imperversano programmi TV di pessima qualità, calcio e pettegolezzi tutte le ore, politici che invitano a usare i cellulari a Scuola (per una generazione che proprio il cellulare ha sostituito al proprio cervello).

La cultura non serve (per far carriera in politica)

Appunto, i politici. Certo non hanno avuto bisogno di cultura, molti di loro, per stare dove stanno. Il problema è il posto ove siedono, che permette loro di legiferare e reggere il timone del Paese. Quasi un terzo dei deputati non è laureato (e la percentuale più alta di non laureati è in quota Lega). Non è laureato Vito Crimi (M5S); non lo è Matteo Salvini, né Luigi Di Maio (attuale Ministro degli Esteri), né Giorgia Meloni (Fratelli d’Italia), né Nicola Zingaretti (PD), né un quarto (almeno) dei deputati M5S, né il fondatore della Lega Umberto Bossi, né l’ex Ministro del Lavoro Giuliano Poletti, né l’ex Ministra della Salute Beatrice Lorenzin, né l’ex Ministro della Giustizia Andrea Orlando, né l’ex Ministra dell’Istruzione Valeria Fedeli, né l’attuale Ministro delle Politiche Giovanili Vincenzo Spadafora, né l’attuale Ministro degli Affari Europei Vincenzo Amendola, né la Ministra del Lavoro in carica Nunzia Catalfo.

«Meglio dotto che dottore» si dirà. Del resto anche molti politici che resero grande l’Italia nel dopoguerra non erano laureati (uno su venti degli eletti nell’Assemblea Costituente, mentre oggi non lo è uno su tre degli eletti in Parlamento). «E con ciò? Non è forse segno di democrazia», dirà certamente qualche leone da tastiera, «il fatto che nell’Italia di oggi anche uno che non ha studiato diventi importante, e che i laureati finiscano a pulire i marciapiedi?». Forse. O forse proprio no.

Alvaro Belardinelli

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