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Sempre più minori in rete: qual è il ruolo della scuola? Il caso in Francia

Che i minori in Italia usino ormai abitualmente la rete in età sempre più precoce è sotto gli occhi di tutti eppure, nonostante i rischi di cui si è ormai largamente consapevoli, anche la scuola fa la sua parte in questa smodata cultura della diffusione dell’impiego della mediazione tecnologica. Come mai?

Certo a scuola le tecnologie dell’informazione e della comunicazione vengono impiegate esclusivamente per uso didattico o come strumenti di supporto alle attività educative, e sempre con la mediazione dei docenti, ma è anche vero che spesso gli stessi insegnanti non si rendono conto fino in fondo dei rischi correlati a questo tecnocentrismo tout court, che permea la vita di bambini e adolescenti ben oltre le porte delle aule e che sta profondamente modificando lo scenario psico-sociale, determinando dipendenze comportamentali anche gravi.

I provvedimenti a tutela della dipendenza digitale nel disegno di legge francese

Contro questa deriva, il governo francese ha recentemente preso una posizione netta, commissionando un’inchiesta sull’uso delle tecnologie sui minori, dai cui risultati, pervenuti al presidente Macron lo scorso 30 aprile, è scaturita la sollecitazione all’applicazione di quanto contenuto in una proposta di legge  approvata la scorsa estate che ne limiterebbe fortemente l’uso, soprattutto tenendo conto che bambini e adolescenti “iperconnessi” sono diventati nel web vere e proprie prede. Questi i provvedimenti a loro tutela: niente accesso agli schermi prima dei 3 anni e, fino ai 6, qualitativamente selezionato e sorvegliato da un adulto; niente smartphone e quindi niente connessione prima degli 11 anni; niente smartphone e televisori negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia; uso dei social solo a partire dai 15 anni d’età e comunque solo social che rispettano precise regole deontologiche.
Un programma a tutela della salute dei bambini sostenuto dal primo ministro francese Gabriel Attal, che considera la scuola una priorità del governo. Un programma nato in quella stessa Francia, che già nel 2015 vietava l’uso del wi-fi negli asili nido e nelle scuole dell’infanzia e lo regolamentava nella primaria, per proteggere i bambini dalle radiazioni elettromagnetiche.

“In Italia il 78,3% di bambini tra gli 11 e i 13 anni utilizza internet tutti i giorni e lo fa soprattutto attraverso lo smartphone.”- ha denunciato Save the Children nella sua pubblicazione XIV Atlante dell’infanzia (a rischio) in Italia 2023, che loro stessi definiscono “una fotografia delle luci e delle ombre che i nostri ragazzi stanno affrontando nel percorso lungo le autostrade digitali”. È, d’altra parte, indubbio che bambini e adolescenti si interfaccino con un mondo che non è stato progettato per loro e utilizzino tecnologie, software, piattaforme e algoritmi dei quali possono facilmente diventare vittime.

Proprio per tutelare i più giovani, spesso i più fragili, dai predatori cibernetici, la Internet Watch Foundation (IWF), un’associazione non governativa che si occupa di combattere la pedopornografia on line, ha, ad esempio, denunciato in un report che nel 2023, il numero di pagine web contenenti immagini di abusi sui minori è cresciuto enormemente. In particolare, quelle che riportano abusi più gravi sono aumentate del 22% rispetto all’anno precedente. E questo anche a causa della diffusione dei dispositivi mobili lasciati senza controllo tra le mani di bambini anche piccolissimi.

Il fenomeno degli hikikomori

Troppi i pericoli sulla rete ai quali sono esposti i minori come l’inganno del phishing, quel tipo di truffa che mira ad estorcere informazioni personali, la violenza del cyberbullismo, ma anche la mancanza di privacy dello sharenting, praticato dagli stessi genitori sempre più abituati a condividere immagini o video dei propri figli su internet. Ma tra tutti, forse il pericolo più grande è quello di non avere più una vita sociale attiva, finendo per sostituire le relazioni reali con quelle virtuali.

Presente in Giappone già dalla seconda metà degli anni ottanta, il fenomeno si è diffuso solo dopo il 2000 in Europa e in Italia oggi si registrano oltre 100.000 casi. Parliamo degli “hikikomori” (in giapponese “lo stare in disparte”), soggetti che si rinchiudono nelle loro abitazioni o addirittura nelle loro stanze, rifiutando ogni contatto sociale diretto, a volte anche con i loro familiari: proprio al recupero dei giovani hikikomori italiani, si dedica, al Policlinico Umberto I di Roma, il prof. Ignazio Ardizzone, neuropsichiatra infantile, oggi riconosciutone un esperto.

Per lo più adolescenti o giovani adulti, gli hikikomori sono individui che si escludono dalle relazioni sociali per più di sei mesi, accettando interazioni con gli altri solo se mediate da internet (in genere chat o videogiochi on line); presentano uno stile di vita caratterizzato da inversione del ritmo sonno-veglia e il rifiuto scolastico e/o lavorativo.
In Giappone, il trattamento può avvenire attraverso l’approccio medico-psichiatrico come disturbo mentale o comportamentale (ricovero ospedaliero, psicoterapia e psicofarmaci), oppure attraverso la risocializzazione (percorsi riabilitativi in comunità alloggio con altri hikikomori). Purtroppo, però i tempi di recupero possono essere anche di diversi anni e possono verificarsi delle recidive.

Il problema maggiore è ancora costituito dalla difficoltà di reperimento dei dati, poiché, nella maggior parte dei casi, le famiglie ricorrono al Servizio sanitario nazionale solo quando i soggetti si trovano in uno stadio avanzato.
È importante quindi fare attenzione ai primi segnali di isolamento come la mancanza di almeno un amico (in particolare dai 6 agli 11 anni), l’aumento di attività solitarie come i videogiochi, il peggioramento dell’umore e il disinteresse verso il corpo. Parallelamente, è fondamentale curarne la prevenzione attraverso percorsi che mirino alrafforzamento dell’autostima e alla promozione di una cultura della relazione e della sua importanza anche attraverso l’uso di infrastrutture sociali come spazi pubblici e centri sportivi. E, in particolare a scuola, predisporre itinerari specifici per la promozione delle cosiddette “competenze sociali”.

Amelia de Angelis

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