Uno dei problemi più seri delle nostre scuole, quello della mancanza di disciplina e dei numerosi gesti di violenza che la vedono come teatro, viene quotidianamente affrontato da politici, intellettuali, addetti del settore. Bene, si dirà, è giusto che se ne parli. Ma quello che non finisce mai di stupire è la superficialità con cui un tema così complesso e delicato viene analizzato; il peggio è che tali interventi contribuiscono a formare l’opinione pubblica e a rinviare sine die la soluzione (difficile) del problema, poiché propongono soluzioni semplificatorie.
L’ultimo, in ordine cronologico, che ha detto la sua sull’argomento, è il presidente dell’ANP, Antonello Giannelli, che si è espresso sull’aggressione subita da un dirigente scolastico di un liceo paritario di Roma. Il dirigente è stato assalito dal compagno della madre di uno studente che aveva ricevuto una sanzione a causa della consuetudine a “far uso di un linguaggio scurrile”. Afferma Giannelli: “al di là delle risibili ragioni scatenanti la criminale aggressione, dobbiamo riflettere sulla crescente mancanza di rispetto nei confronti dell’istituzione scolastica e di chi la rappresenta” e poi “se un familiare non condivide le decisioni dell’istituzione scolastica ha solo il diritto di adire le vie legali. Se aggredisce il personale dovrà essere punito con la massima severità”. Tutto questo avviene a causa, secondo Giannelli, del progressivo allontanamento tra scuola e famiglia e del mancato riconoscimento sociale della scuola.
Ora, non c’è bisogno di un esperto per diagnosticare la perdita di prestigio di cui ha patito l’istituzione scolastica. Si tratta di un fenomeno iniziato da tempo, che daterei con l’inizio della scuola di massa, all’incirca alla prima metà degli anni Settanta. Se vogliamo capirci qualcosa dobbiamo però tenere presenti una serie di accadimenti concomitanti: l’uscita del nostro Paese da un modello ancora legato alla tradizione per muoversi verso una visione emancipata e accettata dalla maggior parte della società (si pensi all’importanza del referendum sul divorzio e poi di quello sull’aborto), gli effetti della contestazione studentesca, l’affermarsi del consumismo, il miglioramento complessivo delle condizioni di vita materiale.
L’elenco sarebbe lungo, ma già da questa sintesi estrema si può cogliere un aspetto importante: la grande spinta in avanti che avviene tra gli anni Sessanta e Settanta del Novecento presenta aspetti positivi e progressivi ma mette in campo anche molti problemi.
Per andare dritti all’argomento che ci interessa, è in questo periodo che si assiste all’esplosione dei modelli educativi. Le famiglie cercano la propria strada all’educazione dei figli, adottando spesso modalità contrastanti; per cui, nella stessa classe convivono bambini che, a casa, ricevono indicazioni diverse. Non sempre la scuola riesce a mediare e ad imporre un proprio punto di vista, tanto più che, nel frattempo, innovazioni pedagogiche mal digerite portano parecchi insegnanti a pensare che l’innata creatività dei bambini non debba essere frenata da regole di comportamento rigide. A questo si aggiunga che i mezzi di comunicazione di massa propongono altri comportamenti, molto lontani da quelli auspicabili a scuola.
Quando poi, avvicinandoci ai giorni nostri, i device digitali vengono praticamente messi in mano anche ai neonati, una delle capacità richieste dalla lunga permanenza in un’aula – e cioè sopportare tranquillamente i tempi morti – sparisce definitivamente. Avviene così che genitori sempre più narcisisti e presi dalla propria vita mal sopportano il giudizio negativo della scuola, dalla quale auspicherebbero invece un aiuto nell’educazione del proprio piccolo. Altri genitori, sempre più istruiti, mordono il freno di fronte alla chiara impreparazione di chi, invece, dovrebbe insegnare (inutile essere ipocriti, c’è anche questo problema).
Altri ancora, che devono farsi carico di lavori duri e mal retribuiti, non possono sopportare il giudizio negativo di un maestro che rimprovera loro di non seguire abbastanza i figli. Anche qui, l’elenco potrebbe essere lungo, ma a me importa soltanto dire che il divorzio tra scuola e famiglia si è celebrato per molte e comprensibili cause. Talvolta, per quanto sbagliato sia, il genitore vede nella scuola un’antagonista, o la veda animata da un’istanza freddamente giudicante e che – peggio ancora – giudica non soltanto il figlio ma anche la famiglia.
Nel frattempo, nell’ultimo quarto di secolo, si è spinto, dall’alto, verso il processo di “aziendalizzazione” della scuola, si sono diffuse idee che sottraggono, di fatto, autonomia ai docenti, prima fra tutte l’asservimento del processo formativo al futuro lavoro dei giovani (per inciso, tutte idee infondate, in quanto la scuola non è un’azienda e non produce merci né ha il magico potere di favorire l’esistenza di posti di lavoro). Non ultima per importanza, quanto allo svilimento della scuola, il modello di scuola on demand: il grande supermercato scolastico dovrebbe offrire agli utenti-clienti quello che desiderano e puntare ad una piena customer satisfaction. Queste sono le debolissime e dannose idee che i nostri governanti hanno imposto, riforma dopo riforma, accompagnondole con un costante taglio alla spesa per l’istruzione.
La crisi della scuola è il segno della crisi del nostro mondo, un mondo in cui lo sviluppo tecnologico è andato di pari passo con una perdita complessiva di senso dell’esistenza, con un affermarsi dell’incertezza, che porta a vivere in uno stato di emergenza, continuamente sottolineato ed esaltato dai mezzi di comunicazione di massa. I più giovani sono lasciati in balia di media digitali che, per dirla con Serge Latouche, colonizzano il loro immaginario.
Ad una onnipotenza virtuale corrisponde un’estraneazione dalla realtà, e il nostro mondo iper-tecnologico produce la “prima grande società dell’ignoranza” per dirla con Benasayag e Gérard Schmit, autori di uno dei più interessanti saggi sulla crisi educativa dei nostri tempi, L’epoca delle passioni tristi. “Tristi” non sono quelle passioni che ci portano al pianto ma quelle che approdano alla disgregazione e all’impotenza. Per contrastare tale processo è necessario recuperare il senso dell’essere a scuola e dell’imparare – e questo vale sia per i piccoli dei Quartieri Spagnoli sia per quelli dei Parioli. Ma è necessario anche che i più giovani tornino a riconoscere l’autorità degli adulti.
Non presento che frammenti di ragionamento, ma penso sia chiaro dove voglio arrivare. Ad una crisi generazionale nuova e grave (non il solito contrasto tra padri e figli, tra vecchi e giovani) è mai possibile che qualcuno creda di trovar risposta con un inasprimento delle pene per chi aggredisce il personale scolastico? Si è già visto che frutti ha dato un analogo provvedimento in ambito sanitario (il DECRETO-LEGGE 30 marzo 2023, n. 34, che inasprisce ulteriormente le pene per chi aggredisce operatori sanitari): nessuno, tant’è che viene invocato un ulteriore inasprimento delle pene.
Una scuola che abbia recuperato il senso profondo del suo esistere è necessariamente fondata su un principio di autorità: ma l’adulto e il più giovane sono legati da un progetto comune. Chi è bambino o ragazzo riconosce insomma un principio elementare ma importante, il principio di anteriorità, che si lega a quello di autorità e che garantisce la possibilità di trasmissione della cultura. Perché questo accada il futuro, quello cui l’educazione introduce, deve essere sentito come una promessa e non, come invece accade spesso, come una minaccia.
E la strada che porta ad uscire da questa impasse non è quella che prevede giri di vite autoritari, sotto forme di sospensioni o addirittura di pene detentive; ci vogliono migliori condizioni di lavoro per gli insegnanti (ad iniziare da un numero decisamente inferiore di studenti per classe) e ci vogliono risorse, tante risorse per favorire un ambiente scolastico più ricco, più accogliente e sicuro. Ma soprattutto ci vogliono tante persone adulte che credano nella necessità di una società migliore di questa e che vedano, nei propri figli o nei propri studenti, giovani persone da rispettare, da incoraggiare, da guidare verso la conoscenza. C’è bisogno, insomma, di un nuovo patto tra generazioni, che sfati l’idea balzana che i padri (le generazioni precedenti) hanno consumato le risorse dei figli.
Questa affermazione ci perseguita da anni: vale per chi ha fatto cattivo uso di poteri decisionali forti, ma non vale per la gente comune. Noi, gente comune, siamo ad un bivio: o ci accontentiamo di curare malamente qualche sintomo (vanno in questo senso le proposte del ministro Valditara) o riprendiamo in mano il nostro destino e lottiamo da genitori, insegnanti, adulti con i nostri ragazzi per una scuola in cui la violenza non abbia più posto.