Che fare se in classe ci sono alunni con difficoltà comportamentali o di apprendimento? Sul tema è intervenuto nelle ultime ore un lettore con una lettera che ha suscitato più di una reazione sulla nostra pagina Facebook.
Fermo restando il fatto che le opinioni e i metodi di insegnamento sono liberi ci sembra però necessario mettere qualche punto fermo per evitare che la “libertà” si trasformi arbitrio o in altro di peggio.
Intanto dovremmo sempre ricordare che ogni dipendente pubblico deve operare all’interno del quadro costituzionale.
L’articolo 3 della nostra Carta dovrebbe essere il punto di partenza anche per la scuola: “È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e la uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese”.
L’articolo non dice che chi è in difficoltà può essere “espulso” e non dice neppure che il Paese può/deve funzionare solo con i migliori.
La scuola ha da essere inclusiva non perché bisogna “essere buoni e affettuosi” ma perché si tratta di rispettare uno dei principi fondamentali della nostra Costituzione.
“Una parte del sistema scolastico italiano – commenta in proposito Stefano Stefanel, dirigente scolastico presso il Liceo ‘Marinelli’ di Udine – continua a ritenere che bocciare e disperdere ancora aiuti a migliorare. Siamo però quelli che bocciano e disperdono di più nel mondo e il sistema non mostra miglioramenti tangibili. Bisogna essere attenti a valorizzare i migliori e ad accompagnare quelli che hanno difficoltà. Mentre si continua per lo più a misurare con strumenti sbagliati su contenuti obsoleti fotografando la negatività e facendosi sopraffare da questa. Il problema è che molti che insegnano non sanno poi valutare e dunque producono ulteriore dispersione. Occuparsi degli studenti in difficoltà è una parte della professione non un peso da scaricare.”
“Nella scuola degli anni ’60 – osserva l’ex ispettore scolastico Raffaele Iosa, già responsabile dell’Osservatorio nazionale sull’handicap – avevamo le vestali della classe media, oggi esistono ancora i sergenti da truppa obbediente, in perfetto stile prof. Aristogitone di Arbore e Boncompagni. Mi rattrista la posizione di chi non mostra alcuna empatia educativa e umana. Insegnare è altra cosa”.
Aluisi Tosolini, dirigente scolastico del liceo di Parma, è particolarmente severo: “Se si applicasse lo stesso metro anche al ceto docente avremmo un problema serio di organici: moltissimi ‘impiegati’ andrebbero licenziati. Io sarei per ‘pagare di più’ e premiare i docenti che lavorano bene con i derelitti (poveri, casinisti, ecc…); d’altronde si tratterebbe di ‘azioni positive e proattive’ che favorirebbero la realizzazione dell’articolo 3 della Costituzione. Non dimentichiamo che un docente pubblico è pagato per rimuovere ostacoli e per fare in modo che tutti diventino cittadini attivi”.
Franco De Anna, ex ispettore scolastico, esperto di problemi della valutazione di sistema, sottolinea: “Per la verità la nostra Carta indica anche di valorizzare i capaci e meritevoli e la ricerca della qualità è testimoniata dall’ obbligo del concorso (ma non è responsabilità dei Padri averli fatti così…), degli esami di Stato e della promozione professionale dei lavoratori. I nostri Padri erano per la qualità come ‘valore pubblico’, dunque non solo ‘inclusione’, ma promozione dei migliori, dei capaci e dei meritevoli”.
“Concludo con una provocazione – afferma De Anna – e dico che per combattere la meritocrazia dei Padri bisognerebbe forse cambiare la Costituzione”.
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