È capitato spesso che grandi scoperte siano avvenute “per caso”, e quindi è lecito chiedersi: quanto conta la “fortuna” nella ricerca scientifica?
Molti di noi nei cassetti vorrebbero custodire sogni, Henri Becquerel invece ci teneva dei sali di uranio e così, per caso, scoprì la radioattività. Durante l’inverno del 1896 il giovane Bequerel stava facendo degli esperimenti sulla fosforescenza e capire le proprietà dei sali di uranio. Per farlo l’ingegnoso fisico francese aveva messo un sacchetto di sali sopra a una lastra fotografica avvolta da carta scura e aveva lasciato il tutto al sole. Dopo aver sviluppato la lastra scoprì che questa era stata impressionata dall’uranio e ne dedusse che in qualche modo i sali erano in grado di assorbire la luce del sole e di lasciare un segno sulla lastra. Insomma era riuscito ad osservare un fenomeno interessante, senza però aver colto quello che stava realmente accadendo.
E come nelle migliori storie, fu il cielo ad aiutare il nostro eroe. Due settimane di pioggia e nuvole costrinsero infatti l’abile sperimentatore a interrompere il lavoro e riporre, a malincuore, tutto il materiale in un cassetto. Il ritorno del sole riaccese la curiosità di Henri che una volta riaperto il cassetto ebbe la geniale intuizione di sviluppare la lastra nonostante non fosse stata esposta al sole. Scoprì che i sali di uranio avevano comunque lasciato un segno su di essa e capì che si trovava di fronte a delle proprietà della materia sino ad allora sconosciute. Un inverno parigino particolarmente nuvoloso aveva così agevolato, per non dire permesso, la scoperta della radioattività, uno dei campi d’indagine più interessante, prezioso e al contempo pericoloso degli ultimi due secoli.
Si chiama serendipità la capacità durante una ricerca scientifica di rilevare e interpretare correttamente un fenomeno occorso in modo del tutto casuale. E la storia della scienza è piena di esempi simili: basti pensare alla penicillina, alla nitroglicerina o ai raggi X. Per questo ci si chiede spesso quanto sia importante il caso e che valore abbia la fortuna in un processo conoscitivo che dovrebbe fondarsi su regole e metodi molto precisi.
La fortuna certamente aiuta, ma come ci ricorda saggiamente Virgilio aiuta gli audaci [Audentes fortuna iuvat]: in primo luogo perché per trasformare l’osservazione di un fenomeno in una scoperta ci vogliono tempo, lavoro e dedizione. Solo chi ha studiato molto ed è molto determinato riesce a far tesoro della fortuna; quante volte infatti gli stessi fenomeni saranno stati osservati senza che ciò portasse a nulla?
Piuttosto dunque che concentrarci sulla fortuna o sul caso sarebbe più opportuno riflettere su cosa renda davvero audaci in ambito scientifico. Gli ingredienti sono tanti, ma ve ne è uno particolarmente importante: la curiosità. La curiosità nasce dal fascino della scoperta, dalla passione per il conoscere e quindi dalla socratica consapevolezza di non sapere.
Scienziati, inventori, esploratori e pionieri che sono stati baciati dalla serendipità furono animati anche da una profonda curiosità. Oggi dunque uno dei compiti principali della scuola, anche per l’insegnamento delle materie scientifiche è stimolare quanto più possibile la curiosità, ponendo l’accento su ciò che ancora non sappiamo, sul fatto che abbiamo appena iniziato un percorso che riserva anche tante sorprese e scoperte; dobbiamo quindi mostrare alle nuove generazioni i limiti del nostro sapere, i confini di un regno che loro potranno ampliare, la consapevolezza di poter andare molto oltre, di poter essere a loro volta protagonisti. In questo modo favoriremo certamente qualche futuro colpo di fortuna…
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