Nel frattempo, l’accoglimento del ricorso impedisce alla sentenza di novembre di produrre effetti giuridici fino alla decisione definitiva.
Tanto da suscitare il “vivo compiacimento” del ministro degli Esteri Franco Frattini che ha detto di guardare “con fiducia alla successiva tappa del procedimento” e di essere più che soddisfatto per “il lavoro di squadra svolto dalla presidenza del Consiglio e dal ministero degli Esteri per far valere un principio di rispetto dei valori profondi del credo religioso cristiano radicato nella grande maggioranza dei cittadini italiani“.
Grande soddisfazione anche da parte del ministro dell’Istruzione, secondo cui “la religione cattolica esprime, per il nostro Paese un irrinunciabile patrimonio morale e culturale. La scuola pertanto – ha sottolineato Mariastella Gelmini – nel rispetto di tutte le altre religioni, deve valorizzare la specificità dei principi cattolici, espressamente riconosciuta dalla nostra Costituzione“.
Significativo che anche la Chiesa, espressasi attraverso il portavoce della Cei, mons. Domenico Pompili, abbia definito il riesame “un passo in avanti nella direzione giusta” ed “un segnale interessante che dimostra come attorno al crocifisso si sia creato un consenso ben più ampio di quello che si sarebbe immaginato“.
La complessa vicenda giudiziaria sulla legittimità del Crocifisso nelle aule ha avuto inizio otto anni fa, nel 2002, quando Soile Lautsi Albertin, cittadina italiana originaria della Finlandia e il marito, avevano chiesto all’Istituto comprensivo statale Vittorino da Feltre di Abano Terme, frequentato dai loro due figli, di togliere i crocefissi dalle aule in nome del principio di laicità dello Stato. Dalla direzione della scuola era arrivata risposta negativa e la signora si è rivolta ai giudici. Dopo diversi passaggi davanti alle giurisdizioni interne che le avevano dato torto, nel 2007 la Lautsi si è quindi rivolta ai giudici della Corte europea dei diritti dell’uomo, che a novembre ha di fatto ribaltato le decisioni della magistratura italiana, le hanno dato ragione, stabilendo anche un risarcimento, a carico del Governo italiano, di cinquemila euro per danni morali. Ora però torna tutto in discussione.