Lo confesso: ho sempre concepito lo studio come fortemente finalizzato al lavoro; non ho mai studiato solo per il puro piacere di apprendere.
E di gente che la pensa come me ce n’è più di quanta si possa immaginare.
Ecco perché quando studiavo – anni 70 e 80 – per le mie due lauree in lingue e letterature straniere (inglese prima e tedesco poi) imparavo con interesse, convinzione e impegno le lingue, ma con disinteresse e fastidio le letterature. Intendiamoci: la letteratura è parte dello scibile umano e quindi come tale rispettabilissima, ma non è spendibile nel mondo del lavoro.
E allora mi domando: perché nelle università non si creano percorsi di studio per chi ha queste esigenze, senza bisogno di frequentare, per esempio, l’Università di Trieste per interpreti-traduttori, cosa che non tutti possono permettersi?
Il problema è ben esemplificato da questo aneddoto: un giorno assistetti a un esame di letteratura di una mia compagna, al termine del quale il dotto cattedratico che la esaminava disse: “Signorina, Lei ha colmato le sue lacune con delle chiacchiere”.
Al che la ragazza, molto arguta e disinvolta, replicò: “Professore, la letteratura è tutta chiacchiere!”
Daniele Orla
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