Insegnare un argomento usando un video (senza spiegazione “frontale”) può definirsi “innovazione didattica”? L’uso di occhiali per la realtà aumentata produce davvero conoscenza? oppure spaccia per conoscenza un unico modo di vedere la realtà? Illudersi di accarezzare i mammut mediante il visore della realtà virtuale fa davvero comprendere la glaciazione Würm? o è solo un divertimento in stile Walt Disney? E davvero tutto ciò che è nuovo, inusitato, ipertecnologico, migliora la didattica perché la “innova”?
Se a cuor leggero rispondessimo affermativamente a queste domande, non avremmo rispetto della logica, né della metodologia scientifica. Sarebbe un po’ come somministrare a tutti i malati farmaci mai sperimentati prima (o sperimentati solo in parte, senza aver completato l’iter di ricerca), con la certezza che siano migliori solo perché “nuovi” e “coinvolgenti”: con quali effetti sulla salute dei pazienti?
Il PNRR e il Piano Scuola 4.0 incitano a rinnovare la didattica partendo dagli “spazi di apprendimento”, cui sarà dedicata gran parte dei 31 miliardi complessivi stanziati per la Scuola. Si intende “innovare” progettando ambienti (digitali e fisici) di apprendimento, “innovando” attrezzature, arredi e spazi, e introducendo “pedagogie innovative” (sic) per utilizzare tutto ciò al meglio. Ma è davvero così che miglioreremo la situazione della Scuola italiana? Pur continuando a prescindere dal numero degli alunni per classe, dalla fatiscenza e dalla pericolosità degli edifici? Non rischiamo di costruire bellissimi e “innovativi” spazi didattici anche in scuole vicine al crollo?
Nel 2019 è stato calcolato che, per rendere sicuri e mettere a norma i nostri 40.000 edifici scolastici (dalla tenera età media di 52 anni), occorrerebbero 200 miliardi: il triplo di quanto si spende in un anno attualmente per la Scuola; l’11% del PIL. Non è un’invenzione di feroci membri della sovversione: lo ha scritto la Fondazione Agnelli. Nulla di tutto ciò, tuttavia, impensierisce la classe politica e dirigenziale nostrana; la quale si appresta, invece, a investire miliardi in “innovazione”. Un po’ come limitarsi a riverniciare le pareti esterne di un grande palazzo lesionato dal terremoto, senza prima assicurarne la tenuta statica.
Significa spendere miliardi pubblici ottenuti a prestito (e quindi destinati ad aumentare l’indebitamento del nostro Paese) con un unico effetto certo: acquistare tanta bella tecnologia “innovativa”, la quale dopo cinque anni al massimo sarà di nuovo obsoleta, e il cui beneficio per la didattica è tutt’altro che indubitabile, perché tutto da dimostrare.
Certo è, invece, il profitto delle multinazionali tecnologiche, già molto aumentato grazie agli anni del CoViD-19 e alla fiducia cieca nella DaD-DDI, dilagata nelle aule di tutta Italia, che sono state consegnate di peso a Google e consimili, nonostante i ben noti problemi di queste aziende col fisco.
Eppure in tutte le discipline scientifiche vale un principio basilare: i metodi nuovi sono considerati dagli scienziati meno attendibili di quelli già sperimentati; per il semplice fatto che, prima di considerare un metodo efficace, la comunità scientifica lo sperimenta per molti anni, ne pubblica i risultati e pone questi risultati al vaglio della comunità scientifica stessa. Nella scienza vera (e il principio vale anche per la pedagogia), solo l’accordo della comunità scientifica definisce affidabile un’innovazione: cosa non ancora avvenuta per tutte le teoriche e sedicenti “innovazioni” che si stanno imponendo dall’alto agli insegnanti delle scuole.
L’imposizione avviene in modo apparentemente indolore, mediante una sapiente e capillare opera di inseminazione ideologica, che crea conformismo e pensiero unico.
Utile, a tal fine, quella catena di comando gerarchica che è stata gradualmente insinuata nelle scuole mediante la cosiddetta “autonomia scolastica”, facendo sì che oggi, nei Collegi dei Docenti, le voci discordanti siano pochissime, e molto intimidite.
Dove sono — a proposito delle “innovazioni” che si vanno ad imporre sulla didattica — i controlli incrociati? Chi scrive, su tali “innovazioni”, recensioni davvero indipendenti da condizionamenti (politici, economici, ideologici)? In che sede le “innovazioni” sono state davvero testate, prima di applicarle sui nostri studenti? e con quale accuratezza?
Perché solo nella Scuola vale il principio contrario a quello del metodo scientifico di ricerca? Perché soltanto nella Scuola i metodi già testati sono automaticamente considerati peggiori di quelli non ancora testati? In ambito tecnico-scientifico non si agisce così: al contrario, si usa una nuova tecnica solo quando essa è già usata da tutti, perché solo a quel punto è assodata la sua migliore qualità; ossia quando non è più “innovativa” da diversi anni! Altrimenti non di scienza e tecnologia si tratta, ma di fede. O di “pedagogia di Stato”, imposta dall’alto, come nei più totalitari dei regimi, di destra o di sinistra che siano (e infatti tutti i governi italiani degli ultimi decenni, di qualsiasi colore, hanno contribuito a ridurre la Scuola nello stato in cui versa attualmente).
Le cavie su cui si vedranno i risultati di tutta questa “innovazione” sono gli alunni e gli insegnanti. Tra qualche decennio — e solo allora — si potrà rispondere alla domanda: fu vera didattica? Ai posteri l’ardua sentenza.
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