È tempo di bilanci, di giudizi e di riflessioni. Anche sui sistemi di valutazione adottati (più o meno consciamente) nelle scuole italiane. La docimologia è quella branca della pedagogia che pretende di essere una disciplina scientifica che si occupa dei criteri e dei parametri applicati nella valutazione scolastica. Malgrado la presunta obiettività scientifica delle tecniche di verifica all’insegna dei criteri docimologici in voga, la valutazione è un’operazione globale, costante e formativa, nella misura in cui esige l’analisi di un ventaglio di fattori dinamici e motivi di ordine soggettivo ed interiore e socio-affettivo, da cui non si può astrarre e che non sono misurabili in termini matematici. In sostanza, nel processo di verifica e di valutazione dei discenti occorre tener conto di una molteplicità di fattori di origine psico-emotiva, morale e caratteriale, che interferiscono inevitabilmente nel rapporto dialettico tra docenti e discenti e nella prassi didattica quotidiana. Per cui l’adempimento della valutazione costituisce l’aspetto più arduo e complesso, ingrato e spiacevole della professione docente.
Ciò non può ridursi ad un mero esercizio di calcolo incentrato sui famigerati quiz con le crocette. Ormai, quando mi chiedono: “che lavoro fai?”, rispondo con amara ironia: “addestro piccoli concorrenti per i quiz INVALSI”. Benché sia sarcastica, la risposta non è affatto distante dalla realtà. Il guaio è che, in qualunque scuola insegni, si incontrano colleghe a cui una simile “mansione” aggrada. O, perlomeno, è accettata supinamente. Mi riferisco all’obbligo di somministrare i quiz calati dall’INVALSI. L’ideologia più fanatica ed ottusa che mai si sia vista nel mondo della scuola è l’ideologia assolutistica ispirata alla docimologia ed alla sua pretesa di oggettività scientifica, ma in realtà pseudo-scientifica. Una velleità autoritaria, che si incarna nel sistema di valutazione INVALSI. Un modello fallito ovunque sia stato applicato. Un carrozzone clientelare, inutile e costoso, gradito soltanto ai funzionari, ai burocrati ministeriali ed ai dirigenti scolastici. Ormai fare scuola si riduce a mansioni di sorveglianza degli alunni, “parcheggio” di giovani disoccupati permanenti, una sorta di “ufficio di collocamento” per futuri precari cronici. L’opera educativa è mortificata da chi per decenni ha malgovernato la scuola.
Ad esempio, l’animatore digitale è l’ultima delle demagogiche invenzioni lessicali del nostro ministero, impegnato da oltre vent’anni a diffondere nelle scuole “cultura digitale”. Per “cultura digitale” hanno inteso il fatto di dotare le nostre scuole di qualche strumento tecnologico in più e di fornire qualche istruzione per poter smanettare con un approccio prettamente funzionale. In tal senso, l’utilizzo del registro elettronico costituisce l’esempio più evidente e paradigmatico della balordaggine e dell’insignificanza ai fini culturali, educativi e pedagogici della cosiddetta “dematerializzazione”. Ma la cosa che rattrista maggiormente è vedere gli insegnanti, che dovrebbero avere come “unico” pensiero, quello della didattica, ossia del metodo e delle strategie per stimolare meglio l’apprendimento dei loro allievi, adoperarsi per mostrare la loro fedeltà al dirigente.
A dispetto della celebre frase di Piero Calamandrei, il “miracolo” compiuto dalla scuola è esattamente l’inverso: anziché formare dei cittadini, la scuola italiana sforna dei sudditi, nella misura in cui gli stessi insegnanti sono ridotti in uno stato di sudditanza. È una situazione esasperata ulteriormente dalla legge n. 107 del 2015: la discrezionalità dei DS è eccessiva ed esiste un concreto rischio di “feudalizzazione” del mondo della scuola, una crescente condizione di subalternità dei lavoratori della scuola nei confronti del capo. D’altronde, questa è la funzione che il potere capitalistico assegna ad un “apparato Ideologico di Stato” qual è la scuola. Come ben spiegava Louis Althusser e come seppe intuire, alla sua maniera, Pier Paolo Pasolini.
Lucio Garofalo
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